Tempo di uccidere

~ Ennio Flaiano

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    detto anche l'impanicato

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    tempo_uccidere
    Titolo: Tempo di uccidere
    Autore: Ennio Flaiano
    Anno: 1947
    Editore: Longanesi
    Pagine: 312
    Descrizione: In un'Africa surreale e priva di ogni esotismo un tenente dell'esercito italiano vaga alla ricerca di un medico, guidato dal mal di denti. Si allontana dal campo, rimane solo, si perde. Hanno inizio così, per caso, le sue disavventure. Prima si convince di aver contratto la lebbra, poi fugge, certo di essere ricercato per tentato omicidio, infine si trasforma in ladro e maldestro attentatore, fino ad approdare alla capanna di Johannes, un luogo misterioso e arcano dove può iniziare a guarire. Nato da una conversazione con Leo Longanesi e vincitore del premio Strega nel 1947, "Tempo di uccidere", unico romanzo scritto da Flaiano, è un'intensa allegoria della guerra, messa a nudo con ironica, spietata crudeltà.


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    Un libro scritto in pochi mesi, ma sedimentatosi per dieci anni nella mente dell'autore. Secondo me si tratta di un dettaglio importante, perché ciò che più mi ha colpito di questo testo sono la carica emotiva e i significati allegorici, segno di una profonda introspezione e anche di una critica a posteriori sulla vita, sulla guerra, sull'essere umano e ciò di cui egli è capace.
    Questa "doppia lettura" si può evincere dalle parole dello stesso autore, quando, parlando della malattia (chissà se contratta dal protagonista o meno), dice «forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo veramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico».


    Ho letto che molte critiche del tempo sono state sul fatto che l'autore abbia scelto di sciogliere tutti i dubbi, tutte le (forse eccessive) casualità che si incastrano tra le pagine, con uno spiegone finale quasi spudorato, talmente esplicito da rovinare il piacevole senso di incompletezza che s'era generato, quel sentimento d'inutilità dell'esistenza, di meschinità e piccolezza dell'uomo. Probabilmente è vero, da un certo punto di vista è una pecca, razionalmente è giusto dire che noi, in quanto uomini, non meritiamo una spiegazione tanto meschini ed egoisti siamo. Eppure lo spiegazione, anche in questo caso, è il giusto vezzo a cui siamo costretti dalla nostra vanità, è un "così sono riuscito a farla franca", è un "sono venuto in questa terra, ho preso ciò che non mi apparteneva, ne ho disposto come meglio mi pareva e adesso l'abbandono senza dover affrontare le mie colpe". Come un bambino che si vanta di una marachella, o un adulto che si vanta di una fregatura data, pur affrontando una parte di senso di colpa in quel finale io ci trovo vanità e voglia di compiacersi. Ed è parte fondamentale del romanzo, inscindibile da esso.

    Edited by Don'tPanic - 14/2/2019, 09:48
     
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