Lessico del razzismo democratico

~ Giuseppe Faso

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  1. N. Zyme
     
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    Titolo: Lessico del razzismo democratico - le parole che escludono
    Autore: Giuseppe Faso
    Anno: 2008
    Editore: Derive Approdi
    Pagine: 144
    Descrizione: Il nostro Paese il sentimento razzista si esprime ormai in espliciti e reiterati gesti di pura violenza da parte di singoli e gruppi contro cose e persone. Questi gesti sono stati preceduti dal lento covare di un silenzioso rancore. Ma col tempo il silenzio è esploso in un liberatorio vociare di gruppi che hanno coinvolto intere comunità. Il lento lavorio delle parole razziste e la loro messa in comunicazione, non solo nei grandi circuiti dei media, ma soprattutto in quelli del minuto transito quotidiano di massa (i bar, i mezzi pubblici di trasporto ecc.), crea i presupposti delle pratiche razziste. Ma la tesi di questo libro è molto più radicale e scandalosa. Accanto a un linguaggio razzista ignorante, esplicitamente sguaiato e volgare, ve ne è un altro più pericoloso ed efficace, quello colto e raffinato proprio di quegli intellettuali che fanno sfoggio di convinta democraticità. Nella loro produzione di linguaggio sono innestati i germi di un sottile razzismo che si insinua nel comune pensare e parlare della «gente comune». Questo è, per l’autore, l’operare del «razzismo dei colti». Ed è proprio da lì che si origina il senso e l’opinione che poi diventa convinzione assoluta di massa perché ammantata di una presunta oggettività, dei cosiddetti «dati di fatto».
    L’autore, spaziando tra diverse discipline del sapere (sociologia, demografia, pedagogia e criminologia), passa impietosamente al setaccio proprio le strategie linguistiche e le retoriche utilizzate dai cosiddetti intellettuali democratici, estrapolando da esse, a mo’ di esempio, una serie di termini razzisti divenuti d’uso disinvolto e abituale nella discussione sui problemi dell’immigrazione. Come a dire che tra politici, giornalisti, ricercatori sociali, si è costruito lo straniero come pericolo pubblico, grazie a stereotipi gabellati come «dati di fatto» e sondaggi d’opinione guidati da formulazioni grottesche, adoperati come statistiche. Così, i luoghi comuni sono diventati fatti sociali, e addirittura categorie di analisi. È in questo modo che la diceria ha espulso la considerazione razionale dei fenomeni capace di orientarci verso una loro pacifica e quindi positiva soluzione


    Un vero e proprio dizionario, in ordine alfabetico, di parole che ormai sono entrate nel lessico corrente, di giornali, amministratori della cosa pubblica, gente comune, dall'apparenza innocua (ma neanche poi così tanto) ma pesanti come macigni. Un libro che fa rabbia e fa riflettere sulla responsabilità sociale che grava su giornalisti, soprattutto quelli di grandi testate, ed amministratori e politici che invece con leggerezza imperdonabile permettono l'entrata in uso di lemmi e slittamenti semantici che fanno rabbrividire. Esempi? L'"integrazione sostenibile". Le "settimane etniche". Gli "irregolari" e i "clandestini". E molti altri...

    "L'uso di integrarsi è come una cicatrice, il segno di una violenza che paternalisticamente promette un traguardo, a chi si sottomette da sé a certe regole [...]. Se ti integri ti accetto. Ad assimilazione compiuta la fatica è tutta tua."


    A seguito un'intervista all'autore che in poche parole riassume sommariamente il contenuto del libro.
    Il razzismo comincia dalle parole “normali”
    DA IMILLE – 04/07/2010
    PUBBLICATO IN:
    di Elena Tebano per City

    Giuseppe Faso
    Il suo centro interculturale aiuta le scuole a insegnare l’italiano ai bimbi di origine straniera. Ha scritto “Lessico del razzismo democratico”.

    Cos’è il razzismo democratico?
    È quello che spesso non sa di essere tale, anche se è diffuso nella società e incoraggiato dalle istituzioni. Di solito è segnalato dalla frase: “Non sono razzista, ma…”.
    Incoraggiato dalle istituzioni?
    Sì, c’è un razzismo dei cosiddetti “antirazzisti” che è ancora più grave di quello consapevole – perché spesso tocca a queste persone prendere decisioni sugli stranieri.
    Per esempio?
    Si fanno delle discriminazioni in base alle appartenenze geografiche che vengono “naturalizzate”.
    Cioè trasformate in caratteristiche innate?
    Sì. Così nelle scuole si dice di un bimbo: “Non va bene a matematica nonostante sia cinese”. Come se nell’essenza delle persone di origine cinese ci fosse una predisposizione alla matematica e una difficoltà a imparare l’italiano. È il caso più ingenuo: ce ne sono di cruenti.
    Cruenti?
    Dopo due stupri, a Roma, l’allora sindaco Walter Veltroni, del Pd, disse: “La matrice è la stessa”. Parlava del fatto che in due episodi c’erano sospettati romeni (diversi) e faceva risalire alla comune origine romena il delitto. Questo è razzismo.
    Intende il fatto di ragionare per categorie e non per individui?
    Tendiamo spesso a pensare per categorie anche quando non ci sono: esperimenti psicologici hanno dimostrato che se dici a una persona che appartiene a un determinato gruppo, questa trova elementi in comune con gli altri appartenenti ad esso – anche se il gruppo è stato estratto a sorte. Il problema è che chi interviene nel dibattito pubblico non tiene conto di queste tendenze.
    Con chi ce l’ha?
    Con politici, giornalisti, commentatori: dovrebbero avere un surplus di responsabilità, perché condizionano il modo in cui pensano gli altri. E sono tanto più pericolosi quanto più sono democratici.
    Perché?
    È più facile difendersi da uno che dice “cacciamoli via”, che da chi dice “bisogna combattere i pregiudizi razziali, ma nel rispetto delle leggi”, come scrisse l’attuale governatore della Toscana in campagna elettorale. Cosa c’entra? Mettere in connessione le due cose significa dare per scontato che se hai a che fare con stranieri, ci sono persone che violano la legge. È subdolo: fa passare i contenuti di discriminazione in un discorso che sembra neutro.
    Lei critica anche il modo in cui vengono gestite le consulte degli stranieri…
    Non tutte: critico quelle in cui si fa votare gli stranieri per provenienza. Nel momento in cui si decide di dare voce – simbolicamente, perché non hanno potere decisionale – agli immigrati, si fanno esprimere a gruppi: gli asiatici, gli africani, i sudamericani. Questo è tribalismo: nostro, non degli immigrati.
    Cioè?
    Si antepone la provenienza geografica al diritto di scelta individuale. Come se gli stranieri fossero organizzati in tribù, come se gli indiani, solo perché stanno in Asia, pensassero uguale ai cinesi. E i cinesi ricchi come quelli poveri. Vuol dire che cresce la tendenza a far dipendere le posizioni personali da quelle delle comunità: stiamo diventando più conformisti. È evidente nelle parole.
    Che c’entrano le parole?
    Tucidide diceva: “Quando vogliamo far accettare un atto degno di biasimo, cambiamo le parole”. Anche noi ci siamo visti cambiare le parole, con nuovi significati positivi o negativi. Prima nessuno diceva “badante”. Da quando Umberto Bossi e la Lega sono andati in tv a parlare di badanti, lo diciamo tutti.
    Qual è la parola che secondo lei meglio racchiude il “razzismo democratico”?
    “Degrado”. Le misure “anti-degrado”, oggi, sono quelle contro writer, lavavetri, prostitute, mendicanti, rom, per garantire la “sicurezza” dei cittadini. Fino agli anni ‘80 però il degrado era solo quello dei muri e delle case a rischio crollo: il significato originario, da dizionario, del termine.
    E dove sta il razzismo, qui?
    Lo spostamento di senso ha diffuso la paura nei confronti degli immigrati: attribuisce loro un senso di minaccia. È passata l’idea che la mia incolumità è a rischio se qualcuno scrive sui muri o si prostituisce. E che i sindaci di questo debbano occuparsi.
    Un altro termine che lei non ama è “disperati”.
    Gli immigrati che arrivano sulle navi non sono disperati. Sono pieni di speranza: hanno progetti, voglia di migliorare la loro vita. George Orwell, in 1984, scriveva che un regime autoritario passa anche attraverso la sostituzione del vecchio linguaggio con una nuova lingua. Che toglie umanità a determinate categorie di persone e ci impedisce di essere solidali con loro.
    Che conseguenze ha tutto questo sui ragazzini italiani figli di immigrati?
    Una signora romena mi ha raccontato, che dopo l’ennensimo “allarme romeni” suo figlio non voleva più andare a scuola: i compagni continuavano a dire che i romeni sono tutti delinquenti. Il risultato è che i ragazzi di seconda generazione sono costretti ad abbandonare la loro identità per farsi accettare. A cancellare la memoria dei loro genitori.

    La vita in 5 date
    1947
    Giuseppe Faso nasce in Puglia, a Foggia, dove il papà lavora in prefettura, da famiglia siciliana. Studia a Milano. Poi vive a Venezia e Bolzano. Alla fine si trasferisce in Toscana, dove insegna italiano e latino nei licei.
    1989
    Inizia a fare volontariato nell’associazione Africa Insieme.
    1993
    Collabora alla stesura della Carta d’intenti dei Comuni Toscani sulle politiche migratorie. Due anni dopo è tra i fondatori della Rete Antirazzista. Si occupa di accoglienza dei bambini non italofoni nelle scuole e dirige il Centro interculturale Empolese-Valdelsa.
    1999
    Nasce la figlia Rossana, ultimogenita e unica femmina. Ha poi tre figli maschi: Luca, Andrea, Elia.
    2008
    Pubblica per Derive Approdi la prima edizione del “Lessico del razzismo democratico”, in cui analizza le “parole che escludono”. Quest’anno è uscita la seconda edizione riveduta.
    iMille.org – Direttore Raoul Minetti
     
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  2. TheGrandWazoo
     
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    libro potenzialmente interessante,
    il fenomeno e' attualissimo e allo stesso tempo antico-

    l'elaborazione di quanto l'ingorgo induttivo dialettico
    scava e fuorvia, dovrebbe essere sviscerato piu' di frequente
    nel mio dialetto per esempio non esistono aggettivi neutri a definire certe categorie,
    sono dispregiativi gia' sul nascere ( anche se praticamente vengono usati in buona fede )
     
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1 replies since 2/2/2015, 23:13   46 views
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