Non ora, non qui

~ Erri De Luca

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    "Aspetta, mamma, non avere fretta anche da ferma, in una fotografia. Ci tocca una strana condizione e questa voce mia che scorre e ci fa ritrovare, non sarà più."

    Titolo:Non ora, non qui
    Autore: Erri de Luca
    Anno: 1989
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    IBS
    ****

    Io amo De Luca.
    Ma forse questo si era capito già.
    Questo è il suo libro d'esordio, che leggo in coda a molti altri. E' un libro un po' più duro, più difficile da digerire, eppure bello come tutti gli altri... Le parole di De Luca sono disposte lontane dalle facili associazioni: la storia, apparentemente semplice, di un sé vecchio che entra in una fotografia e rivive i ricordi di un'infanzia fatta di silenzi e balbuzie, un incontro con la madre da un autobus, è narrata in maniera discontinua, agrodolce. Riflessioni sull'essere bambino, sulle incomprensioni, su tutti i dialoghi rimandati....
    Bellissimo.
    :)


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    "Tutto questo passava per la mente del bambino che rompeva i giocattoli? Tutto questo e molto di più, ma non le parole per dirlo. Solo più tardi, dal suo gioco silenzioso, dal ricordo di esso, estraggo la riduzione a resoconto. Anche se le parole, per la loro natura servizievole, prestano lume, in verità sono ombra, sono segni scuri tracciati contro l'immensità di un'infanzia qualsiasi.
    Mi accosto ad essa con la cecità progressiva degli anni e solo l'amore verso quel mondo chiuso consente il tentativo di dargli le parole che non ebbe. Solo l'amore consente il ritorno, ma nemmeno esso basta a giustificarlo ed io so di violare da estraneo la sua vastità incomprensibile. E quando uno prova a spiegare il silenzio, anche quello di un bambino, fa come chi mette in barattoli l'aria di città straniere visitate tanto tempo fa, imprigionando il vuoto."


    CITAZIONE
    De Luca scardina il forziere della memoria, a fare da chiavistello una fotografia, uno sguardo catturato su carta che spinge indietro nel tempo a raccontare con il passato sulle labbra le stagioni fanciulle nella Napoli del dopoguerra.
    È il primo romanzo, ma lo stile è quello limpido che riconosceremo poi nei libri successivi, qui messo a sottrarre silenzio alle “desolazioni impronunciabili di cui erano fatti i suoi mutismi di bambino (…) Un bambino poco adatto a farsi intendere e forse poco disposto”, la cui identità era preparata da una fioritura di reticenze. Nella città dei nomi urlati, dove “le donne erano strilli”, tra l’impaccio generale di bocche poco avvezze all’italiano, per le quali “l’assonanza era approssimazione alla voce esatta, era tutto il cammino percorso per apprendere e provare a ripetere e a cui mancava solo un passo, solo un soldo, mancanza che mandava in fumo tutta la fatica con la frase a uscire storpia, per sempre suggellata dal ridicolo”. Lì tace la lingua impaziente di De Luca da piccolo, “balbuziente per fretta di concludere”, zittito per effetto dell’ilarità prodotta dall’intoppo della parola, quasi come assenza d’equilibrio.
    Lì nasce il desiderio di raccontare in differita, da dietro il bianco d’un foglio che si colora d’inchiostro. “Perché parlare è percorrere un filo. Scrivere è invece possederlo, dipanarlo”. E allora scrive, e gli anni dietro i vetri ad assorbire il coro di voci e rumori del vicolo, diventano pagine in cui ricordare e, al tempo stesso, nascondere la propria storia di figlio, cresciuto avvertendo d’improvviso distanza. Tanta, troppa distanza da tutto: dalla città, dalle persone e in primis da una madre che lo mandava in viaggio a raccogliere ciò che i suoi occhi avevano visto. “Perché il male non andava perduto se qualcuno lo teneva a mente, se qualcuno lo teneva a pelle”. E, bambino, segue le sue parole eseguendole, “interlocutore preferito, il muto, l’imbuto” in cui versare sdegno e dolore. Segue il suo comando, quel “non ora, non qui” che dà titolo al romanzo: esigenza di tregua, di silenzio contrapposta al chiasso della strada buia, posta in discesa, “in fondo a un precipizio di scalini guasti”, in quella Napoli dove “toccava al passante apprendere le regole della destrezza per non essere derubato, ferito”.
    Su altre teste e altre schiene cadevano le botte dei grandi, niente lividi né sangue, ma parole dalle quali impara tardi a difendersi, tra l’apnea e la balbuzie esplodendo in un “novvoglio parole” a rifiutare non il conforto, ma il rimprovero che marcava la differenza tra quelle e i colpi subiti da altra infanzia. Poi gli anni dai nove ai diciannove, “i traslochi in migliori quartieri e la povertà finita all’improvviso insieme con l’infanzia”. La porzione di cielo davanti ai vetri si fa sconfinata, la fantasia smette d’esser pungolata dalla vista claustrofobica del vicolo e subentra la fatica nell’immaginare come nello studiare. Diventa refrattario, indifferente alle nuove facilità “sentendosi non adatto a stare a quella finestra in faccia al cielo”. Non più intelligente, non più bravo a scuola, inadeguato a quel mondo improvviso che era scoppiato dopo i suoi dieci anni. “Rimasto fermo al solo posto conosciuto. Tutti erano andati avanti e altrove, tutti andavano più in fretta. In quegli anni dell’adolescenza conosce la calma”. Impara a stare senza attesa e a vedere cose invisibili agli altri. Impara a confrontarsi col tempo, impara l’amore divenendo resto delle persone amate, delle loro sottrazioni e non scappa dal proprio passato quando gli torna alla mente con parvenza d’intero, mediante il tramite di una fotografia, volto di madre cui “toccò un figlio non adatto ai doveri che aveva in serbo per lui, un bambino confuso che accumulava pezzi di identità nel gioco del fraintendimento con lei”

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