Le Metamorfosi

~ Apuleio

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    Lascio che le cose mi portino altrove

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    Apuleio



    LE METAMORFOSI
    O
    L'ASINO D'ORO







    (Secondo secolo dopo Cristo)



    LIBRO 1

    1. Ecco, nello stile milesio voglio, lettore, intrecciare per te varie favole, e con il piacevole mormorio del mio narrare carezzare le tue orecchie benevole. Basterà solo che tu non rifiuti di dare uno sguardo a un papiro egizio che è stato scritto con la finezza propria di una cannuccia del Nilo. Avrai da stupirti, poiché si tratterà delle persone e delle sorti di uomini mutati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno di nuovo nella forma primitiva.


    Esordisco.


    "Chi è costui?" ti chiederai. Ti rispondo brevemente. L'attica Imetto, l'epirota Istmo, la spartana Tenaro sono terre felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò anticamente la mia schiatta; qui, nei primi esercizi dell'infanzia, appresi la lingua attica.


    Poi, nella città del Lazio, io, che ero straniero all'ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell'idioma locale, e in esso mi approfondii, senza che alcun maestro mi guidasse. Chiedo perdono, dunque, se, da parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare.


    Del resto, pure la varietà del mio linguaggio corrisponde all'abilità del passare da una storia all'altra, che è propria dell'argomento da me trattato.


    Inizio dunque una favola che è alla maniera dei Greci. Stai attento, lettore, perché ci troverai il tuo spasso.


    2. Ero diretto per affari in Tessaglia. La mia famiglia infatti è originaria di quel paese per parte di madre e vanta tra i suoi ascendenti niente meno che il celebre Plutarco e poi suo nipote, il filosofo Sestio.


    Me ne andavo dunque in Tessaglia in sella a un cavallo del posto dal candido mantello, e avevo già varcato ripidi fianchi di monti, declivi sdrucciolevoli di valli, distese rugiadose di prati e terreni di fertili zolle, quando, visto che la mia cavalcatura era sfinita, saltai a terra. Volevo anche sgranchirmi un po' le gambe, poiché lo star sempre seduto mi aveva veramente stancato.


    Con molta cura asciugo al cavallo la fronte bagnata di sudore, gli accarezzo le orecchie, gli tolgo il morso, lo lascio avanzare pian piano a passo molto calmo, in attesa che liberi, come d'abitudine, il ventre per la via naturale e smaltisca così il peso della stanchezza.


    Mentre il cavallo, volgendo il muso di fianco, si curvava a brucare l'erba dei prati attraverso i quali passava, e, andando al passo, faceva un rapido spuntino, io mi aggregai come terzo a due compagni di viaggio che si trovavano un po' innanzi a me.


    Ascoltando la loro conversazione, sentii uno dire all'altro con una sghignazzata:

    "Piantala di raccontare in questo modo panzane così assurde ed enormi".


    Appena udii questa frase, io, che sono sempre assetato di novità, esclamai: "Anzi, permettetemi di partecipare alla conversazione.


    Non sono un ficcanaso, ma mi piace sapere tutto o almeno quanto più posso. Il monte che stiamo salendo è aspro. Raccontando piacevolmente delle storie, ci svagheremo, ed esso ci sembrerà più facile".


    3. Ma quello che aveva parlato per primo, riprese:

    "Sono tutte fandonie, queste! Bella verità! Come se qualcuno volesse sostenere che basta sussurrare una formula magica perché i fiumi tornino agili indietro, il mare, messo in ceppi, diventi inerte, i venti, pur non avendo fiato, soffino, il sole si fermi, la luna sia schiumata come un brodo, le stelle si stacchino dal cielo, il giorno scompaia, la notte prolunghi la sua durata".


    Io allora interloquii con maggior sicurezza:

    " Be' ! Tu che hai parlato per primo, non avertene a male, vinci la tua noia e continua il tuo racconto sino alla fine".


    E rivoltomi all'altro:

    "In quanto a te, ti turi le orecchie e rifiuti ostinatamente d'intendere cose che forse si potrebbero riscontrare vere.


    Perbacco! Tu non sai una cosa: che i pregiudizi senz'ombra di verità rendono del tutto incredulo l'uomo davanti a quei fatti che egli crede di non aver mai sentito o visto, o che comunque per la loro difficoltà gli sembrino al di sopra della sua comprensione.


    Ma esamina questi fatti con un po' più di attenzione. Ti accorgerai allora che non solo risultano evidenti alla mente, ma sono pure facili a realizzarsi".


    4. "Proprio ieri sera si mangiava un pasticcio di polenta e formaggio. A un certo punto, per star dietro agli altri convitati, inghiottii avidamente un boccone un po' più grosso dell'ordinario.


    Ebbene! Poco mancò che non restassi secco, perché quel cibo molle e vischioso mi si era attaccato alle fauci, in modo da chiudermi la trachea. Eppure poco tempo fa ad Atene, davanti al portico del Pecile, proprio con questi miei occhi, ho visto un giocoliere ingoiare per la punta una spada da cavalleria affilatissima. Non solo, ma lo stesso tizio, allettato da poche monete, si cacciò poi fino in fondo alle budella uno spiedo da caccia, inghiottendolo dall'estremità pericolosa, di modo che l'arma, introdotta alla rovescia, sembrava sprofondare con l'asta sino alla nuca.


    Dopodiché, ecco che un ragazzo di una bellezza femminea si butta sul ferro della lancia e, volteggiando con elastica agilità, esegue complicate evoluzioni, mentre noi stavamo lì incantati per la meraviglia. Lo si sarebbe detto il nobile serpente arrotolato con le sue molli spire attorno al bastone, tutto nodi e spunzoni, che porta il libro della medicina. Ma su, ora, per piacere, riprendi il racconto che hai cominciato. Io prometto di crederti per tutti e due, e alla prima osteria in cui entreremo ti offrirò il pranzo. Ecco pronto il compenso per il tuo disturbo".


    5. E lui: "Accetto volentieri la tua promessa, ma ero appena agli inizi, e continuerò dunque a raccontare. In primo luogo ti giuro per il Sole che è ora in cielo, dio onniveggente, che io racconto fatti realmente accaduti. Del resto non avrete più alcun dubbio, quando giungerete alla più vicina città della Tessaglia, perché là la storia corre sulle bocche di tutti, e si tratta di cose successe davanti agli occhi della gente.


    Voglio però che prima sappiate il mio nome e la mia città. Mi chiamo Aristomene e sono di Egio. State a sentire quali sono le risorse del mio commercio. Io giro in lungo e in largo Tessaglia, Etolia e Beozia, vendendo miele, formaggio e gli altri generi alimentari che servono nelle trattorie.


    Mi era giunto all'orecchio che a Ipata, la più fiorente città di Tessaglia, era offerto in vendita a un prezzo conveniente del formaggio fresco e dal gusto squisito, e corsi in fretta per acquistare l'intera partita. Ma, come spesso succede, si vede che ero partito col piede sinistro, perché il guadagno sperato andò in fumo: infatti, il giorno prima, Lupo, un commerciante all'ingrosso, aveva accaparrato tutta l'offerta.


    Perciò, stanco della corsa inutile, mi avviai ai bagni pubblici, che già calava la sera.


    6. Ma ecco che vedo niente di meno che Socrate, un mio compagno.


    Se ne stava seduto per terra, con un mantellaccio sfrangiato che appena lo copriva, e non lo si riconosceva più, tanto era pallido e sfigurato dalla magrezza, in modo da far pietà, proprio come uno di quei relitti della fortuna che nei crocicchi usano chiedere l'elemosina .


    Era questi un mio intimo amico, e io lo conoscevo benissimo; tuttavia era in tale stato, che mi accostai a lui un po' titubante ed esclamai:

    - Be'! O Socrate, che significa? Che aspetto hai! Come sei mal ridotto! A casa tua ti hanno già pianto e gridato per morto, e ai tuoi figli sono stati assegnati dei tutori, con un decreto del giurisdicente provinciale; in quanto a tua moglie, essa, resi gli onori funebri, prima si è consumata nel pianto e nell'afflizione e, a forza di spremersi gli occhi, ha quasi perso la vista; ora sta per cedere alle insistenze dei suoi genitori e rallegrare con nuove nozze la tua casa, che è stata colpita dalla sventura. Ma tu, per colmar la nostra vergogna, ti vedo qui che sembri uno spettro dell'al di là.


    - Aristomene -, fu la sua risposta - si vede bene che tu non conosci le mutevoli giravolte, i colpi mancini, le scambievoli peripezie delle vicende umane.


    Mentre parlava, il suo volto si tingeva di rosso per la vergogna, tanto che alla fine se lo coprì con quel mantello, tutto toppe come quello di una maschera, e in questo atto, dall'ombelico sino al pube mostrò nudo il resto del corpo. Insomma, non ressi al doloroso spettacolo della sua miseria, e la compassione mi vinse.


    Gli porgo la mano e gli faccio forza perché si alzi.


    7. Ma lui, così com'era, col capo coperto dal mantello, esclamò:

    - Lascia, lascia pure che la Fortuna goda ancora a lungo del trofeo che si è elevata da sé.


    Tuttavia riuscii a ottenere che mi seguisse. Mi tolgo una delle due tuniche che avevo addosso, e mi affretto a vestirlo o, per meglio dire, a nascondere la sua nudità, dopodiché lo affido all'acqua del bagno. Di persona gli passo l'occorrente per asciugarsi e ungersi; con grande cura gli tiro via, a forza di fregare, lo spesso strato di sudiciume.


    Così, dopo una pulizia scrupolosa, poiché era debole, me lo piglio sotto braccio (fu una faticaccia, perché ero stanco anch'io) e me lo porto fino all'albergo; qui lo metto a riposare in un buon letto, lo rimpinzo di cibo, gli rischiaro il morale con dei buoni bicchieri e gli racconto delle storie per svagarlo.


    Già lui si abbandonava alla voglia di chiacchierare, di scherzare, di scambiare garbate facezie; già la conversazione si svolgeva allegra e vivace, quando emise un doloroso sospiro, che gli veniva dal cuore, e battendosi con rabbia la fronte con la destra, esclamò:

    - Che disgraziato sono! In quale abiezione sono caduto! Tutto per aver voluto correre dietro allo spasso di uno spettacolo di gladiatori, del quale si raccontavano meraviglie. Difatti, tu lo sai bene, mi ero recato in Macedonia per il mio commercio; dopo nove mesi che trascorsi là per i miei interessi, me ne tornavo abbastanza fornito di quattrini, ma un po' prima di Larisa (siccome passavo di là, volevo assistere a uno spettacolo di gladiatori), in una valle deserta e piena di anfratti, fui assalito da briganti avidissimi che mi hanno spogliato completamente. Riuscii però a svignarmela e, visto che ero ridotto al verde, presi alloggio da un'ostessa, una certa Meroe. Era questa una donna anziana ma molto piacente, così le raccontai i casi delle mie lunghe peregrinazioni, gli affannosi pericoli del ritorno, la miseria in cui mi trovavo per la rapina subita, e lei dapprima mi trattò con molta gentilezza, mi offrì gratis una cena generosa, poi, solleticata da un molesto prurito, mi tirò nel suo letto. Fu questa la mia rovina! Bastò dormire con lei una notte sola, per contrarre una relazione senza fine e senza rimedio.


    Persino le vesti che quei bravi ladroni mi avevano lasciato, ho finito per regalargliele! Persino quei miseri guadagni che facevo, quando ero ancora in gamba, esercitando il mestiere di facchino!

    Alla fine, grazie a quella brava femmina e alla mia malasorte, mi sono ridotto nello stato in cui poco prima mi hai visto.


    8. - Perbacco -, esclamai - sei degno sul serio dei più atroci supplizi, se pure c'è una pena più grave di quest'ultima che ti è capitata. Ma come hai potuto preferire alla tua casa e ai tuoi figli un capriccio amoroso dietro una sgualdrina incartapecorita?

    Al che, lui, mettendosi l'indice sulla bocca e con i segni dello sbigottimento sul volto.


    - Taci, taci - mi raccomandò. Poi, volgendo intorno gli occhi per assicurarsi se poteva parlare liberamente, aggiunse:

    - Modera le tue parole, perché costei è una donna fuori del comune. Potresti tirarti addosso un guaio, con la tua intemperanza di linguaggio.


    - Oh questa, poi!- esclamo. - Ma che razza di donna è questa gran signora e regina d'osteria?

    - E' una maga, - rispose - un'indovina. Può tutto: calare giù la volta celeste, sollevare la terra, rendere di sasso le fonti, sciogliere in acqua i monti, innalzare le ombre dei morti al cielo, abbassare gli dèi all'Inferno, spegner le stelle, dar la luce persino al Tartaro.


    - Per piacere, - esclamai - metti da parte questo sipario da tragedia, ripiega questo tendone da teatro e parla come parlano tutti.


    - Vuoi - mi chiese - sentire un esempio o due del suo potere? Te ne potrei raccontare finché vuoi. Che si amino perdutamente non solo le persone del luogo, ma anche gli indiani, quelli delle due Etiopie o gli altri degli Antipodi, queste sono le briciole dell'arte magica, sono cosette da niente. Ascolta piuttosto i prodigi che ha eseguito in presenza di parecchi testimoni.


    9. - Un suo amante che, con suo scorno, l'aveva piantata per correre dietro a un'altra, con una sola parola l'ha mutato in un castoro. E' un animale, questo, che per sfuggire alla prigionia, si sbarazza degli inseguitori recidendosi i genitali: voleva, dunque, che anche a lui capitasse lo stesso, perché aveva riposto il suo piacere in un'altra. Anche un oste, suo vicino e quindi suo rivale, lo ha trasformato in una rana, e ora il povero vecchio nuota in una botte del suo vino e, sepolto nella feccia, chiama raucamente con un gracidio che vuol essere cortese i suoi antichi avventori. Un avvocato che aveva parlato contro di lei, lo ha trasformato in un montone, e ora quel montone tratta cause in tribunale. In quanto alla moglie di un suo amante, siccome le aveva rivolto una frase di scherno, l'ha condannata a essere incinta in eterno. Dato che quella era già sotto il peso della gravidanza, la maga le ha chiuso l'utero e ritardato il momento del parto; insomma, secondo i calcoli della gente, il fardello è già di otto anni, e la poverina si è gonfiata come se dovesse partorire un elefante.


    10. - Molti altri successivamente sono rimasti vittime delle sue arti, e l'indignazione popolare crebbe a tal punto, che un bel giorno si decise di condannarla a una pena tra le più severe:

    I'indomani avrebbe dovuto esser lapidata. Ma lei, grazie ai suoi incantesimi, prevenne la condanna, al pari della famosa Medea che, ottenuto il respiro per una sola giornata da Creonte, con le fiamme, originate da una corona, aveva bruciato l'intera casa, la figlia e lo stesso padre. Egualmente agì Meroe. Eseguendo sortilegi su di una fossa funebre, ottenne, tramite la tacita potenza delle divinità, che tutti, come poi mi raccontò in un accesso di ubriachezza, fossero chiusi nelle loro case. Per due giorni interi, nessuno poté togliere i chiavistelli né abbattere le porte e neppure aprire un foro nei muri; alla fine tutti concordemente a gran voce la supplicarono e si impegnarono con solenni giuramenti a non toccarle un capello, anzi a offrirle aiuto e salvezza, se qualcuno avesse osato farle torto. Solo a questi patti lei si indusse a più miti consigli e mise in libertà i concittadini. Però il promotore di quel complotto, a notte fonda, con la casa completamente sbarrata, come si trovava, cioè con le pareti, persino col terreno e con tutte le fondamenta, venne da lei trasportato a cento miglia di lì in un'altra città, situata sul cocuzzolo d'una montagna scoscesa e perciò priva d'acqua. Siccome poi le dimore degli abitanti erano così serrate tra loro che non offrivano spazio alcuno al nuovo arrivato, essa fece atterrare la casa di fronte alla porta della città e poi se ne andò pei fatti suoi.


    11. - C'è da meravigliarsi e da rabbrividire, Socrate mio, al tuoi racconti - esclamai. - Pure a me hai cacciato addosso una bella preoccupazione, anzi una bella paura. Non è una pulce nell'orecchio, questa: è una lancia che mi è capitata tra capo e collo. Io temo che quella vecchia si avvalga, come ha già fatto, di forze demoniache per conoscere i nostri discorsi. Direi dunque di andare a letto presto, di riposarci con una buona dormita, e di notte, prima dell'alba, di svignarcela via da qui il più lontano possibile.


    Stavo ancora facendo queste raccomandazioni, che già il buon Socrate si era addormentato e ronfava della grossa. E si capisce!

    La stanchezza per quel lungo periodo di stenti, e il vino al quale non era più abituato, lo avevano cotto a dovere. Allora io tiro la porta e caccio tanto di chiavistello, metto inoltre il mio giaciglio dietro i battenti, ce lo accosto con cura e mi ci butto sopra. Dapprima rimasi sveglio un bel po' per la paura, poi, verso le tre di notte, chiusi un po' gli occhi. Ma mi ero appena assopito, che all'improvviso si spalancano le porte con una violenza troppo grande per crederla opera di briganti. Ma che dico! I cardini vengono rotti o strappati completamente, e l'uscio abbattuto a terra. Pure il mio lettuccio, che era corto, zoppo d'un piede e tutto tarlato, si rovescia per la violenza dell'urto, e anch'io rotolo e precipito per terra, e il letto, capitombolando all'indietro, viene a ricoprirmi interamente.


    12. Ebbi allora la prova naturale che certi stati d'animo producono effetti contrari. Infatti spesso la gioia fa versare lacrime, e così io, per quanto fossi pieno di paura, non potei trattenere il riso, visto che da Aristomene ero mutato in una tartaruga. Precipitato sul pavimento e appiattito sotto quel lettuccio, così pieno di sollecitudine nei miei confronti, attendevo a spiare di traverso il seguito della faccenda. Vedo niente di meno due donne di età avanzata: una portava una lucerna accesa, l'altra una spugna e una spada nuda. In tal foggia si piazzano ai fianchi di Socrate che dormiva della grossa, e la donna con la spada esclama:

    - Eccolo qua, sorella Pantia, il caro Endimione, eccolo qua il mio Catamito, che giorno e notte ha sfruttato la mia gioventù, ecco qua quello che disprezza il mio amore. Non solo mi oltraggia con le sue calunnie, ma si accinge pure a svignarsela. Ma io non starò a piangere in eterno sulla mia vedovanza, come Calipso che fu abbandonata dall'astuto Ulisse.


    Stese quindi la destra e, additandomi alla sua cara Pantia, aggiunse:

    - C'è poi quella buona lana di Aristomene, il saggio consigliere, che lo ha indotto a fuggire. Ora giace bocconi sotto il letto con la faccia rivolta a terra, ma non gli sfugge niente di quanto avviene. Costui crede che se la passerà liscia, per le offese che mi ha recato. Certo, la mia vendetta arriva un po' tardi, ma lui avrà da pentirsene presto, anzi sul momento, prima per i suoi scherni e ora per la sua curiosità.


    13. Come udii queste parole, disgraziato che ero! mi sentii correre un sudore freddo per il corpo, le budella mi ballavano per il gran convulso e il tremito si comunicava al lettuccio, che ondeggiava e saltava irrequieto sulla mia schiena. Dal canto suo, la brava Pantia interloquì:

    - Non sarebbe meglio, sorella mia, fare a pezzi per primo costui alla maniera delle Baccanti, oppure legarlo come un salame e tagliargli i testicoli?

    Al che Meroe (e in effetti cominciavo ad accorgermi che il suo nome si adattava bene ai racconti di Socrate) replicò:

    - Al contrario. Lasciamolo pure in vita, e che seppellisca in poca terra il cadavere di questo sciaguratello.


    E, spinta di fianco la testa di Socrate, gli immerge la spada attraverso la clavicola sinistra fino all'elsa, poi accosta un piccolo otre e raccoglie diligente il sangue che sgorgava, senza versarne in terra neppure una goccia. Sono cose, queste, che ho visto coi miei occhi. Inoltre la buona Meroe, per non portare, credo, alcuna innovazione nei riti che regolano i sacrifici, introdusse la destra attraverso la ferita e, dopo molto frugare, ne trasse il cuore del mio povero compagno, mentre dalla sua gola, squarciata per il violento colpo di spada, più che voce, usciva un incerto gorgoglio, e il fiato sfuggiva sotto forma di bolle.


    Intanto Pantia tampona con la spugna la larga piaga della ferita, ed esclama:

    - O spugna, tu che sei nata nel mare, bada bene di non traversare la corrente di un fiume.


    Compiuti questi atti, esse, prima di partire, si accosciarono a gambe allargate sulla mia faccia e scaricarono la vescica, finché non mi ebbero completamente bagnato con la loro immonda orina.


    14. Avevano appena varcato la soglia, che i battenti si rialzano in piedi, intatti com'erano prima, i cardini rioccupano gli infissi, le sbarre ritornano al loro posto sulla porta, il chiavistello ripenetra negli anelli. Io invece rimango immobile ancora steso a terra, senza fiato, nudo, freddo e madido d'orina, come se fossi allora uscito dal ventre di mia madre. Ma che dico!

    Ero mezzo morto, ma pure mi pareva d'esser un sopravvissuto a me stesso, un superstite, o un candidato che fosse stato già designato a salire sulla croce.


    Dicevo, infatti:

    - Che avverrà di me domani, quando costui verrà scoperto sgozzato?

    Chi crederà alla verosomiglianza delle mie proteste, anche se dico la verità? Mi obbietteranno: 'Ma tu almeno potevi gridare al soccorso, se un pezzo d'uomo, come te, non se la sentiva di opporsi a una donna. Ma come ? Un uomo viene ucciso sotto i tuoi occhi e tu te ne stai zitto? E come va che quelle criminali non hanno ucciso allo stesso modo anche te ? Persone così crudeli e spietate avrebbero dovuto far fuori un testimone, solo per la paura d'essere denunciate per il loro delitto. Dunque, visto che sei sfuggito alla morte, ora torna pure da lei'.


    Mentre tra me stesso non la smettevo di girare e rigirare tali considerazioni, la notte trapassava nel giorno. Perciò il miglior partito mi parve quello di tagliar la corda prima dell'alba, e incamminarmi per la mia strada, anche se le gambe mi facevano cilecca. Raccolgo il mio povero bagaglio, infilo la chiave e cerco di aprire il catenaccio, ma quella porta onesta e fedele, che si era spontaneamente spalancata durante la notte, ora, ficca e rificca la chiave, alla fine si lasciò aprire solo a prezzo di molti sforzi.


    15. - Ohi là! Dove sei? - grido al portinaio. - E' l'alba. Voglio partire.


    Quello se ne stava dietro l'uscio del suo sgabuzzino, sdraiato in terra, e ancora mezzo addormentato mi fa:

    - Che cosa? Vorresti metterti in cammino di notte? Ma non sai che le strade sono infestate dai briganti? Può darsi che tu abbia qualche delitto sulla coscienza, e perciò che non te ne importi un fico di vivere, ma io non ho una zucca sul collo, e non ci tengo a morire al tuo posto.


    - Ma il giorno è vicino - obbiettai. - E poi cosa vuoi che rubino i banditi a un disgraziato di viandante senza il becco di un quattrino? O che sei scemo! Non sai che un uomo senza panni addosso non possono spogliarlo neppure dieci lottatori di palestra?

    Ma quel tizio, marcio di sonno, si girò sull'altro fianco e tagliò corto:

    - Insomma, che ne so io? Potresti aver ammazzato quel compagno con cui sei arrivato ieri sera, e ora voler dartela a gambe!

    Ricordo che in quell'istante vidi la terra aprirsi sino al Tartaro e nel suo fondo il cane Cerbero bramoso di divorarmi per la gran fame. Fui allora sicuro che, se la generosa Meroe aveva risparmiato il mio collo, non era stato per pietà, ma per riservarmi, nella sua crudeltà, al supplizio della croce.


    16. Me ne tornai allora nella mia camera, e pensavo tra di me al modo più sbrigativo di porre fine ai miei giorni. Il fatto è che la Fortuna non mi offriva altra arma che potesse condurre alla morte, all'infuori del mio giaciglio, e così a esso mi rivolsi:

    - O lettuccio mio, - esclamai - amico carissimo del mio cuore, tu che con me hai sofferto tante disgrazie, tu che sei testimone imparziale degli avvenimenti di stanotte, tu solo potresti confermare la mia innocenza al momento del processo. E' tempo ormai che tu mi offra un'arma liberatrice, perché sono impaziente di scendere nel regno dei morti.


    Mentre parlavo, mi volgo a sciogliere una delle corde con cui era intrecciata la rete del letto, ne avvolgo un capo attorno a una trave che sporgeva da una parte sotto la finestra, e con l'altro capo faccio un solido nodo. Poi salgo sul letto eroicamente, pronto a morire, introduco la testa nel cappio e me lo infilo al collo.


    Stavo dunque per dare un calcio al sostegno su cui poggiavo, perché sotto la trazione del peso la fune che mi serrava alla gola annientasse la vitale funzione del respiro, ma all'improvviso la fune, che era vecchia e rosa dalle tarme, si spezza, e io, capitombolando all'ingiù investo Socrate (infatti era steso di fianco a me) e rotolo in terra assieme a lui.


    17. Proprio in quell'istante irrompe dentro il portinaio urlando senza riguardo:

    - Dove ti sei cacciato? Stanotte avevi una fretta del diavolo, ora russi sotto le coperte.


    A questi parole, non so se svegliato per effetto della caduta o dalle sguaiate vociferazioni di quello, si alzò per primo Socrate e disse:

    - Giustamente i viaggiatori non possono soffrirli, tutti questi locandieri. Questo ficcanaso importuno è entrato, immagino, per arraffare qualcosa. Ero sprofondato in un sonno di piombo, eppure mi ha svegliato, con tutto il suo baccano.


    Mi drizzo in piedi d'un balzo, poiché la gioia insperata mi aveva colmato di felicità, ed esclamo:

    - Ecco, o fedelissimo portinaio, il mio compagno, il mio fratello.


    Eccolo quello che tu falsamente mi accusavi di aver ucciso. Si vede che eri ubriaco stanotte.


    Così dicendo, abbracciavo Socrate e lo baciavo. Ma egli, respinto dalle zaffate dell'immondo liquido con cui quelle streghe mi avevano sporcato, mi respinge con violenza esclamando:

    - Va' via, che la più schifosa delle latrine non puzza come te ; e cominciò a richiedere scherzosamente la causa di quel fetore. Ma io, che ero nella brace, lì per lì immaginai una battuta che, pur non quadrando un gran che, riuscì a deviare la sua attenzione verso altri argomenti. Poi, battendogli la mano sulla spalla, gli dico:

    - Perché non ce ne andiamo? Di mattina è un piacere camminare col fresco.


    Raccolgo quel po' di bagaglio che avevo, pago il prezzo della camera all'oste e ci mettiamo in marcia.


    18. Avevamo già fatto un bel pezzo di strada, e il sole, che intanto era sorto, spargeva dappertutto la sua luce. Io osservavo con molta attenzione la gola dell'amico, in quel punto in cui avevo visto immergere la spada, e dicevo a me stesso:

    - Pazzo che sei! Colpa tua se avevi bevuto ed eri sepolto nel vino al punto di fare sogni così atroci! Eccolo qua, Socrate. E' intero, sano e salvo. Dov'è la ferita, dov'è la spugna, dov'è insomma quella piaga così profonda e recente?

    Poi mi rivolgo a lui:

    - Medici autorevoli sostengono, e hanno ragione, che se uno si gonfia di cibo e di vino, fa poi sognacci terribili e malsani.


    Ieri sera ho ecceduto nello svuotare il bicchiere, e ho passato una nottataccia piena d'incubi orribili e minacciosi. Figurati che ancora adesso mi pare d'essere asperso e macchiato di sangue umano!

    Il mio amico sorridendo replicò:

    - O non certo di sangue sei bagnato, ma di orina. Ma pensa che anch'io ho sognato, nientemeno, che mi sgozzavano. Infatti ho sentito una trafittura qui nel collo, e mi è parso che mi strappassero il cuore. Anche ora sento che mi manca il fiato, mi tremano le ginocchia e ho il passo malfermo. Ho bisogno di mangiar qualcosa per rimettermi in sesto.


    - Pronti! - gli rispondo. - La colazione t'aspetta; e togliendomi dalla spalla la bisaccia, gli offro subito del pane e un pezzo di formaggio.


    - Sediamoci all'ombra di questo platano - gli dico.


    19. Così facemmo, e mentre anch'io prendevo un po' di pane e formaggio, lo guardavo che mangiava avidamente, e vedo che la sua magrezza si accentua e il volto gli diventa giallo come il bosso, quasi stesse per svenire.


    In breve, nel suo pallore e nei suoi tratti sconvolti era così manifesta l'alterazione della vita, che io, con la mente ancora fissa alle Furie della notte prima, fui colto dal terrore: il primo boccone di pane che mi ero messo in bocca, sebbene fosse molto piccolo, mi si fermò in mezzo alla gola e non voleva più né scendere giù né risalire in su. Anche il pensiero che eravamo in due soli a viaggiare accresceva la mia paura. Chi infatti avrebbe creduto che fra due compagni di strada l'uno fosse morto senza colpa dell'altro?

    Intanto Socrate, quando ebbe mangiato a sufficienza, cominciò ad avere una sete irresistibile: si era infatti divorato una bella porzione di quell'ottimo formaggio.


    Non lontano dalle radici del platano fluiva pigramente una dolce corrente che aveva piuttosto l'aspetto d'un tranquillo stagno e rivaleggiava nei suoi riflessi con l'argento e col cristallo.


    - Ecco - dissi - una fonte che deve avere l'acqua dolce come il latte. Bevi pure a volontà.


    L'amico si alza, cerca un istante uno spiazzo della riva un po' più in basso, e inginocchiatosi si curva avido a bere una sorsata.


    Ma non aveva ancora sfiorato con le labbra il pelo dell'acqua, che la ferita alla gola si apre e mostra una profonda piaga, d'un tratto la spugna scivola giù, e poche gocce di sangue la seguono.


    L'uomo è ormai un cadavere che sta per cadere nel fiume, e io faccio appena in tempo ad afferrarlo per un piede e a tirarlo con gran fatica in alto sulla sponda. Qui versai sul mio povero amico quelle poche lacrime che l'incalzare degli avvenimenti mi permetteva, e nella spiaggia sabbiosa, nelle vicinanze del fiume, gli diedi eterna sepoltura.


    Quanto a me, poiché ero spaventatissimo per la mia stessa vita, me ne fuggii per vie remote e deserte regioni; come se mi fossi macchiato la coscienza di un assassinio, abbandonai la mia patria e la mia casa, abbracciai spontaneamente l'esilio, e ora abito in Etolia, dove mi sono risposato".


    20. Questo fu il racconto di Aristomene. Ma il suo compagno, che sin dall'inizio si era incaponito a non prestar fede alcuna alla sua storia, esclamò:

    "Una favola più sballata di questa non c'è, e neppure un'invenzione più assurda".


    Poi si rivolse a me: "E tu, tu che sei un uomo istruito, come dimostri dall'aspetto e dalle maniere, credi a questa storia?".


    "Per conto mio," risposi "io credo che tutto è possibile, e in definitiva gli avvenimenti umani hanno l'esito che ha fissato il destino. Infatti, non c'è uomo, compreso me e te, a cui non capitino tanti di quei casi straordinari e impossibili, tali che se tu li vai a contare a uno che non sia al corrente, non sei creduto. Ma io a lui, perbacco, ci credo e gli sono molto grato, perché ci ha saputo distrarre con una storia così interessante che, senza provare stanchezza o noia, ho superato una salita molto lunga e faticosa. E' andata bene anche per la mia cavalcatura:

    dev'essere un piacere, per lei, che io sia salito, senza fatica da parte sua, sino alla porta della città, viaggiando non sulla sua schiena, ma con le mie orecchie".


    21. Così finì la nostra conversazione e il viaggio in comune.


    Infatti, tutti e due i miei compagni piegarono a sinistra verso una cascina che era lì vicino. Io invece mi diressi alla prima osteria che vidi, e interpellai senz'altro la vecchia ostessa:

    "E' questa la città di Ipata?".


    Fece cenno di sì.


    "Conosci un certo Milone, un cittadino dei primi?".


    Si mise a ridere ed esclamò: "Certo. Qua tutti Milone lo chiamano il primo. Infatti abita completamente al di fuori del pomerio (N.d.t.: terreno consacrato) e della città".


    "Lasciamo da parte gli scherzi, nonna cara, e dimmi per piacere che razza d'uomo è, e dove abita".


    "Vedi le finestre là in fondo che guardano esternamente verso la città, e dall'altra parte l'uscio che dà nel vicolo vicino? Là abita questo Milone. E' un individuo pieno di soldi, un riccone, ma avarissimo, un uomo malfamato per la sua estrema spilorceria.


    Pratica senza ritegno l'usura, prestando denaro a questo e a quello sotto garanzia d'oro e d'argento. Vive sempre chiuso nella sua bicocca, la mira sempre rivolta al guadagno, insieme con la moglie che anche lei ha la stessa malattia. Non tiene servitù all'infuori d'un'unica schiavetta, e va sempre vestito come un mendicante".


    22. Di fronte a queste informazioni mi scappa da ridere, e dissi:

    "Il mio caro Demea ha agito con affetto previdente verso di me, indirizzandomi per il mio viaggio a un uomo simile. Di certo pensava che in casa di costui non avrei patito né esalazioni di fumo né cattivi odori".


    Così dicendo, vado avanti pochi passi, mi avvicino all'ingresso e mi metto a bussare alla porta, che era sprangata con tanto di catenaccio, e a chiamar gente. Finalmente si affacciò una ragazza:

    "Ehi ehi!" esclamò. "Cosa vuoi, che bussi con tanta energia? Quale pegno offri per il denaro che desideri in prestito? O forse sei l'unico a non sapere che qui non entrano altri pegni all'infuori dell'oro e dell'argento?".


    "Non potresti fare un augurio migliore?" replicai. "Dimmi, piuttosto: il tuo padrone è in casa?".


    "Certamente," mi rispose "ma perché me lo chiedi?".


    "Gli devo consegnare una lettera che gli scrive Demea di Corinto".


    "Vado a riferire, e tu intanto aspettami qua".


    Con queste parole spranga i battenti e rientra in casa. Dopo un po' ritorna, spalanca la porta e mi dice:

    "Vuol vederti".


    Entro, e lo trovo sdraiato su un lettuccio striminzito, che proprio allora cominciava a cenare. La signora sedeva ai piedi e la tavola era vuota.


    "Ecco," esclama, mostrandomi la tavola "quello che posso offrirti".


    "Bene" faccio io, e gli consegno la lettera di Demea.


    Dà una rapidissima scorsa e mi dice:

    "Sono riconoscente al mio Demea che mi ha indirizzato un ospite di riguardo".


    23. Ordina allora alla sua signora di levarsi, e mi invita a sedere al suo posto; e poiché io per delicatezza esitavo ad accettare, mi prende per la tunica e mi tira giù.


    "Siedi qua" mi disse. "Purtroppo, per paura dei ladroni non ci azzardiamo a comprare sedie o mobili in quantità sufficiente".


    Mi sedetti, ed egli riprese: "Io, solo al vedere la distinzione del tuo portamento e la tua modestia degna d'una fanciulla, avrei indovinato che discendi da un'ottima famiglia. Del resto, pure la lettera di Demea conferma la mia impressione. Perciò, ti prego, non disprezzare l'ospitalità della nostra povera casa. Vedi la camera adiacente a questa? In essa sarai al coperto, e non ci starai male. Profitta pure a tuo piacere della mia dimora. Se ti degnerai, la mia casa ne ritrarrà vanto e tu acquisterai ornamento di gloria, se ti contenti di una dimora così ristretta, perché eguaglierai la virtù di un eroe di cui tuo padre porta il nome.


    Egli è Teseo che non spregiò l'ospitalità della vecchia Ecale".


    Chiama poi la servetta e le ordina: "Fotide, prendi i bagagli dell'ospite e mettili al sicuro in quella stanza. Presto! Tira fuori dalla dispensa l'olio per ungersi, gli asciugatoi e tutto l'occorrente, e conduci il mio ospite al bagno più vicino. Il viaggio è stato abbastanza lungo e faticoso, e lui dev'essere stanco".


    24. Come udii la conclusione, io considerai le parsimoniose abitudini di Milone e, poiché me lo volevo accattivare maggiormente, esclamai:

    "Non ce n'è bisogno. Sono sempre provvisto, quando viaggio. In quanto ai bagni, sarà facile farmeli indicare. Piuttosto c'è una cosa, alla quale tengo moltissimo: Fotide, prendi questi denari e fammi il piacere di comprare fieno e orzo per il mio cavallo che mi ha validamente portato fin qui".


    Dopodiché, i miei effetti furono deposti nella suddetta stanza, e me ne andai in cerca dei bagni. Ma siccome volevo prima provvedermi di qualcosa da mangiare, mi diressi al mercato, e là vidi esposto del pesce davvero bello. Chiesi il prezzo, e mi furono chiesti cento sesterzi. Contrattai, e lo ebbi per venti denari.


    Proprio mentre stavo per uscire dal mercato, mi imbattei in Pitea.


    Era stato mio compagno di studi nell'attica Atene, e non lo vedevo da un bel pezzo. Mi riconosce; affettuosamente si precipita su di me e mi bacia teneramente:

    "Mio caro Lucio, è passato davvero tanto tempo da quando ci siamo visti. Perdinci! Risale a quando lasciammo la scuola di Clizia.


    Qual buon vento ti conduce qui?".


    "Te lo dirò domani", gli rispondo. "Ma che sorpresa! Mi congratulo con te: ti vedo attorniato da apparitori e da littori, e mi hai tutto l'aspetto di un magistrato".


    "Provvedo al controllo dell'annona", mi risponde, "e sono edile.


    Se vuoi fare degli acquisti, sono a tua disposizione".


    Scossi la testa, poiché mi ero già provvisto di pesce in abbondanza per la cena. Ma intanto Pitea, visto il paniere, si mette a soppesare i pesci, per esaminarli meglio.


    "Ma questa robetta quanto l'hai pagata?".


    "A stento sono riuscito a strapparla a un pescatore per venti denari".


    25. Alla mia risposta l'amico mi afferra bruscamente per la mano e mi riconduce indietro al mercato.


    "E' una truffa. Chi te l'ha venduta?" mi chiede Gli addito un vecchietto che sedeva in un angolo.


    Egli subito lo investe con voce imperiosa, come comportava la sua autorità di edile.


    "Lasciamo pure stare i forestieri, ma voi ormai non avete più riguardo neanche per i nostri amici! Dei pesci da nulla li vendete così cari! Volete proprio ridurre la città più fiorente della Tessaglia a un deserto roccioso, con l'esosità dei vostri prezzi?

    Ma non la passerete liscia. In quanto a te, ti farò vedere io con quale criterio intendo, durante l'anno della mia magistratura, punire i disonesti".


    Seduta stante, rovescia al suolo il paniere e ordina a un suo subalterno di salire sui pesci e di spiaccicarli a dovere. Poi, tutto soddisfatto per avere mostrato la severità del suo agire, il caro Pitea mi dice:

    "Vieni via, ora. Ho dato al vecchio una bella lezione, e mi basta".


    Rimasi costernato per l'accaduto, e mi avviai alle terme tutto rincitrullito. Così, grazie al senno e all'accorto intervento del mio amico, rimasi contemporaneamente senza quattrini e senza cena; sicché, dopo il bagno, me ne tornai alla dimora di Milone e mi ritirai in camera mia.


    26. Ed ecco presentarsi Fotide, la serva, dicendo:

    "Ospite, il padrone ti desidera".


    Ma io, che già conoscevo il senso d'economia di Milone, mi scusai con garbo e addussi come pretesto che non di cibo avevo bisogno, bensì di sonno, per riposarmi della stanchezza del viaggio.


    Appena lo seppe, Milone si presentò di persona e, posandomi la mano sulla spalla, cercava di tirarmi con dolcezza. Siccome gli opponevo una certa resistenza, esclamò:

    "Me ne andrò, solo quando mi seguirai", e appoggiò la sua dichiarazione con un solenne giuramento; di modo che dovetti, vista la sua ostinazione, obbedirgli mio malgrado.


    Mi conduce a quel suo lettuccio, e non ero ancora seduto che già mi chiedeva:

    "Come sta di salute il nostro caro Demea? Come stanno la moglie, i figli, gli schiavi di casa?".


    Dò notizie dettagliate al riguardo. Successivamente esige più accurate informazioni sui motivi del mio viaggio, e io con esattezza glieli dico. Non basta. Comincia a svolgere un'indagine scrupolosissima sulla mia città, sui suoi maggiorenti, persino sul governatore.


    Alla fine si accorse che, oltre che per lo strapazzo del viaggio, ero stanco per quella serie ininterrotta di chiacchiere:

    m'interrompevo per il sonno a metà frase, e già cascavo al punto che balbettavo e non riuscivo a pronunciare con sicurezza le parole.


    Solo allora mi concesse licenza di andarmene a letto. Potei così sottrarmi al banchetto di ciarle dell'insaziabile e rancido vecchio. Ero pieno di sonno, ma non di cibo, e avevo pranzato solo a base di chiacchiere; così, quando tornai in camera mia, subito mi abbandonai all'agognato riposo.




    LIBRO 2


    1. Appena il sole ebbe disperso la tenebra notturna e riportato il nuovo giorno, abbandonai contemporaneamente il letto e il sonno.


    Oltre all'ansietà e alla brama vivissima, in me connaturata, di conoscere ogni fenomeno raro o meraviglioso, c'era in me il pensiero che mi trovavo nel cuore della Tessaglia, terra celebre in tutto il mondo, per voce unanime, come la patria degli incantesimi e dell'arte magica.


    Ricordando poi che la vicenda raccontataci da Aristomene, quel buon compagno di viaggio, era sorta proprio nell'ambito di questa città, ardevo di attese e di desiderio e scrutavo ogni particolare con curiosità.


    Tra tutte le cose che vidi in quella città, nessuna mi sembrò essere quello che era in realtà, ma credevo che ogni creatura od oggetto avessero assunto una figura diversa dalla primitiva, per effetto di funebri incantesimi recitati con voce sommessa.


    Credetti cioè che i ciottoli in cui inciampavo fossero degli uomini mutati in pietre, gli uccelli di cui udivo il canto, uomini che avessero messo le penne; credetti che in modo analogo gli alberi attorno al pomerio si fossero coperti di foglie, e che l'acqua delle sorgenti si riversasse da umane membra; mi sembrava che le statue e le immagini stessero lì lì per parlare, i buoi e altri animali del genere emettere predizioni, e che persino dal cielo e dal disco del sole sarebbe caduto sulla terra un oracolo.


    2. Così, mi aggiravo dovunque sbigottito, o per dir meglio, affascinato dal mio tormentoso desiderio, senza però riuscire a scoprire un principio o un indizio che soddisfacesse le mie ansie.


    Mentre dunque me ne andavo per le vie, di porta in porta, come un bighellone uso a darsi bel tempo, d'improvviso capitai, senza avvedermene, al mercato, e qui, affrettando il passo, raggiunsi una dama che camminava con attorno un folto codazzo di servi; l'oro che legava le sue gemme ed era intessuto nelle sue vesti la dichiarava, senz'ombra di dubbio, per gran signora. Era appiccicato al suo fianco un vecchio, già avanti con gli anni, che, appena mi vide, esclamò:

    "Perbacco, ma è Lucio!".


    Quindi, mi abbraccia e mormora non so quali parole all'orecchio della signora; poi mi dice:

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