Orfeo ed Euridice I

Ver. Gerog. IV 457 506

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  1. aspirantelatinista
     
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    illa quidem, dum te fugeret per flumina praeceps,
    immanem ante pedes hydrum moritura puella
    seruantem ripas alta non uidit in herba.
    at chorus aequalis Dryadum clamore supremos
    implerunt montis; flerunt Rhodopeiae arces
    altaque Pangaea et Rhesi Mauortia tellus
    atque Getae atque Hebrus et Actias Orithyia.
    ipse caua solans aegrum testudine amorem
    te, dulcis coniunx, te solo in litore secum,
    te ueniente die, te decedente canebat.
    Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis,
    et caligantem nigra formidine lucum
    ingressus, manisque adiit regemque tremendum
    nesciaque humanis precibus mansuescere corda.
    at cantu commotae Erebi de sedibus imis
    umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum,
    quam multa in foliis auium se milia condunt,
    uesper ubi aut hibernus agit de montibus imber,
    matres atque uiri defunctaque corpora uita
    magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
    impositique rogis iuuenes ante ora parentum,
    quos circum limus niger et deformis harundo
    Cocyti tardaque palus inamabilis unda
    alligat et nouies Styx interfusa coercet.
    quin ipsae stupuere domus atque intima Leti
    Tartara caeruleosque implexae crinibus anguis
    Eumenides, tenuitque inhians tria Cerberus ora,
    atque Ixionii uento rota constitit orbis.
    iamque pedem referens casus euaserat omnis,
    redditaque Eurydice superas ueniebat ad auras
    pone sequens (namque hanc dederat Proserpina legem),
    cum subita incautum dementia cepit amantem,
    ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes:
    restitit, Eurydicenque suam iam luce sub ipsa
    immemor heu! uictusque animi respexit. ibi omnis
    effusus labor atque immitis rupta tyranni
    foedera, terque fragor stagnist auditus Auerni.
    illa "quis et me" inquit "miseram et te perdidit, Orpheu,
    quis tantus furor? en iterum crudelia retro
    fata uocant, conditque natantia lumina somnus.
    iamque uale: feror ingenti circumdata nocte
    inualidasque tibi tendens, heu non tua, palmas."
    dixit et ex oculis subito, ceu fumus in auras
    commixtus tenuis, fugit diuersa, neque illum
    prensantem nequiquam umbras et multa uolentem
    dicere praeterea uidit; nec portitor Orci
    amplius obiectam passus transire paludem.
    quid faceret? quo se rapta bis coniuge ferret?
    quo fletu manis, quae numina uoce moueret?
    illa quidem Stygia nabat iam frigida cumba.

    Eccovi la traduzione un po' libera...
    Correndo affannata lungo un fiume,
    Euridice, destinata a morire,
    per sfuggirti, non vide un immane serpente
    che abitava le altre rive nell'erba.
    E il coro delle ninfe sue compagne
    riempì di lamenti i monti più alti;
    piansero le cime del Ròdope,
    gli alti Pangei,
    la terra martia di Reso,
    piansero i Geti, l'Ebro, l'attica Oritía.
    E Orfeo, cercando nella cava testuggine(=cetra) conforto
    all'amore perduto,
    cantava a se stesso di te, o dolce sposa,
    cantava di te all'alba, cantava di te al tramonto.
    Poi, entrò nelle gole del Tènaro,
    il varco profondo di Dite,
    e nel bosco offuscato dalla nera paura
    si avvicinò ai Mani e al loro re tremendo,
    incapaci di mettere in pace i cuori con le umane preghiere.
    Ma le tenui ombre commosse
    giungevano dalle profonde sedi dell'Erebo,
    simulacri privati della luce,
    come le molte migliaia di uccelli si nascondono tra le foglie
    quando la sera o la pioggia invernale li allontana dai monti,
    madri, uomini, e corpi privi di vita,
    di eroi generosi,
    e bambini, fanciulle non maritate
    e giovani arsi sul rogo
    davanti agli sguardi dei genitori:
    ora li lega il Cocito, l'inamabile palude dall'oda lenta
    e lo Stiage li circonda aggirandoli nove volte.
    Sino al cuore del Tartaro,
    alle dimore della morte,
    sino alle Eumenidi
    dai capelli intrecciati con cerulee serpi
    dilagò lo stupore;
    muto con le tre bocche spalancate
    rimase Cerbero
    e insieme al vento si arrestò la ruota di Issione.
    E già Orfeo ritenendo il piede aveva evitato ogni pericolo,
    e la rinata Euridice giungeva alle auree superne,
    seguendolo alle spalle ( infatti Proserpina aveva posto tale regola),
    quando un'improvvisa follia prese l'incauto amante,
    senza dubbio da perdonare, solo se i mani sapessero perdonare:
    si fermò, e già sotto quella luce, vinto nell'animo -ahimè misero-,
    si voltò a vedere la sua Euridice.
    Lì andò perso ogni sforzo e rotti i patti del crudele tiranno
    per tre volte si sentì un fragore negli stagni dell'Averno.
    Quella: " chi perse me e te, o Orfeo, quale grande follia?
    E i fati per la seconda volta mi chiamano indietro
    e nasconde gli occhi vacillanti dal sonno.
    E ora addio: vado circondata da una densa oscurità
    e, non più tua, tendendo le deboli mani.
    Disse e e subito sparì dagli occhi,
    e non lo vide più che afferrava invano le ombre e voleva dire molte cose;
    ma il nocchiero dell'Orco
    non gli permise più
    di passare di là dalla palude.
    Che fare? Dove andarsene, perduta ormai,
    perduta la sua sposa?
    Con che pianto commuovere le ombre,
    con che voce gli dei?
    Certo, ormai fredda
    lei navigava sulla barca dello Stige.
     
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  2. aspirantelatinista
     
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    C'è un passo de L'Orfeo del Divn Claudio ( Claudio Monteverdi) che riprende la descrizione della palude infernale fatta da Virgilio, prendendo anche spunto da Dante:
    Ecco l'altra palude, ecco il nocchiero
    che trae gli spirti ignudi a l'altra sponda,
    dov'ha Pluton de l'ombre il vasto impero.
    Oltra quel nero stagno, oltra quel fiume,
    in quei campi di pianto e di dolore,
    destin crudele ogni tuo ben t'asconde.
    Or d'uopo è d'un gran core e d'un bel canto:
    io fin qui t'ho condotto, or più non lice
    teco venir, ch'amara legge il vieta,
    legge scritta col ferro in duro sasso
    de l'ima reggia in su l'orribil soglia,
    che in queste note il fiero senso esprime:
    «Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate.»
    Dunque, se stabilito hai pur nel core
    di porre il piè ne la città dolente,
    da te me n' fuggo e torno
    a l'usato soggiorno.
     
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1 replies since 13/6/2008, 18:04   774 views
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