Animali in libertà

Charles Bukowski

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  1. Betti B.
     
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    Dalla raccolta: Storie di ordinaria follia


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    Attenzione!
    Linguaggio esplicito!



    Ero reduce da una lunga catena di sbornie, durante la quale m’ero giocato l’impiego, la camera d’affitto e (forse) il cervello. Quella notte dormii in un vicolo. Mi svegliai col sole, vomitai, attesi cinque minuti, poi scolai quel che restava d’una bottiglia di vino che m’era rimasta accanto. Mi misi a camminare per le strade della città, senza meta. Quando camminavo, mi pareva di riuscir ad afferrare una parte del significato delle cose. Naturalmente, non era così. Ma non è che a star fermo andasse meglio.
    Camminai qua e là per un pezzo, in uno stato di semincoscienza. Accarezzavo l’idea, vaga e affascinante, di lasciarmi morire di fame. Desideravo solo un posto dove sdraiarmi e aspettare. Non provavo alcun rancore verso la società, poiché non ne facevo parte. A ciò mi ero da tempo adattato.
    Ben presto arrivai all’estrema periferia. Le case si fecero rade. Poi, l’aperta campagna. Una cascina ogni tanto. Più che fame avevo nausea. Faceva caldo, mi tolsi il cappotto, l’appesi al braccio. Mi venne sete. Non c’era una fontana da nessuna parte. Avevo i capelli arruffati, la faccia sporca di sangue, m’ero fatto qualche abrasione cadendo, chissà. Morir di sete non mi pareva una morte tranquilla, come intendevo io. Decisi allora di mendicare un bicchier d’acqua. Passai oltre la prima casa che incontrai, però, perché mi parve avesse un’aria inospitale, e proseguii ancora per la strada. Arrivai a una casa molto grande, di tre piani, verde chiaro, rivestita di rampicanti e con tanti alberi e arbusti intorno. Quando fui più vicino, sentii strani rumori provenire dall’interno e uno strano odore, come di carne cruda, urina ed escrementi. Tuttavia, la casa aveva un nonsoché di accogliente. Andai a suonare al portone.
    Venne a aprirmi una donna sui trent’anni. Aveva i capelli lunghi, castano rossicci, lunghissimi, e grandi occhi nocciola che mi guardavano. Era una bella donna, portava blue jeans attillati, scarponcini, una camicetta rosa. Il suo volto, i suoi occhi non tradivano né paura né apprensione.
    “Sì?” disse, con un’ombra di sorriso.
    “Ho sete,” le dissi. “Potrei avere un bicchier d’acqua?”
    “Entrate,” ella disse. La seguii nel salotto. “Accomodatevi.”
    Mi sedetti, con garbo, su una vecchia poltroncina. Andò di là in cucina. Mentre sedevo là sentii correre pel corridoio. Qualcuno entrò lì nel salotto, fece un giro intorno alla stanza, poi si fermò davanti a me. Era un orango. Quando mi vide si mise a fare balzi di gioia. Poi spiccò un balzo e venne a sedermisi in grembo. A muso a muso, mi fissò per un momento negli occhi, poi distolse la testa di scatto. Agguantò il mio cappotto, saltò a terra e scappò via con esso, pel corridoio, emettendo strani suoni.
    La donna tornò col bicchiere d’acqua, me lo porse.
    “Mi chiamo Carol,” mi disse.
    “Io, Gordon,” dissi. “Ma poco importa.”
    “Perché non importa?”
    “Per me, è la fine. Sono finito. Mi spiego?”
    “Cos’è stato? L’alcol?” mi chiese.
    “L’alcol,” risposi e, facendo un gesto verso l’esterno, soggiunsi: “e loro.”
    “Anch’io ho i miei guai con ‘loro’. Sono sola.”
    “Vivete in questa grande casa tutta sola?”
    “Beh, non proprio.” Rise.
    “Ah, sì. Quello scimmione m’ha rubato il cappotto.”
    “Quello lì è Bilbo. E’ coccolo. E’ pazzo.”
    “Il cappotto mi serve, per stasera. Farà fresco.”
    “Restate qui, stanotte. Avete bisogno di riposare.”
    “Se mi riposo, poi magari mi va di seguitare il gioco.”
    “E perché non dovreste? Secondo me, ne vale la pena. Se uno lo prende per il verso giusto.”
    “Io dico di no. E poi, perché dovreste aiutarmi?”
    “Io sono come Bilbo,” mi rispose. “Sono pazza. Così almeno la pensano loro. Sono stata tre mesi in manicomio.”
    “Sul serio?”
    “Mica balle,” ella disse. “Ora per prima cosa ti preparo una minestra.”
    Più tardi, mi disse: “La Contea vuole cacciarmi via di qua. C’è una causa in corso. Per fortuna, mio padre m’ha lasciato un bel po’ di soldi. Mi posso difendere. Lo sai come mi chiamano? Crazy Carol. Carol la Matta. Ce l’hanno col mio Libero Zoo.”
    “Non leggo i giornali. Il Libero Zoo?”
    “Sì, io amo gli animali. Non mi trovo con la gente. Ma, Gesù, con gli animali ci comunico. Forse sono matta sì. Chi lo sa.”
    “Io ti trovo simpatica.”
    “Davvero?”
    “Sul serio.”
    “La gente ha paura di me. Sono contenta che tu non abbia paura invece.”
    Sgranava gli occhi. Erano d’un marrone scuro scuro. Occhi pensosi. Via via che parlavamo, la sua corazza protettiva mi pareva venir via a poco a poco.
    “Chiedo scusa,” le dissi, “ma ho bisogno di andare al gabinetto.”
    “In fondo al corridoio, la prima porta a sinistra.”
    “Compermesso.”
    Percorsi il corridoio e voltai a sinistra. La porta era aperta. M’arrestai. Appollaiato sul braccio della doccia sopra la vasca c’era un pappagallo. E, accovacciata sullo scendi-bagno, c’era una tigre. Enorme. Il pappagallo non badò a me, la tigre mi guardò annoiata, indifferente. Tornai in salotto di corsa.
    “Carol! Mio dio, c’è una tigre nella stanza da bagno!”
    “Oh, quello è Dopey Joe. Non ti fa niente.”
    “Beh, non posso cacare con una tigre che mi guarda.”
    “Sciocco. Vieni con me.”
    La seguii pel corridoio. Entrò nel bagno e disse alla tigre: “Su, Dopey, vieni via di là. Il signore non può mica cacare, se ci sei tu che lo guardi. Ha paura che tu lo vuoi mangiare.”
    La tigre guardava Carol con aria seccata.
    “Dopey, bastardo, non fartelo dire un’altra volta! Conto fino a tre. Avanti. Uno… due… tre…”
    La tigre non si mosse.
    “Va bene, l’hai voluto tu!”
    Prese la tigre per un orecchio e, tirandola, la costrinse ad alzarsi. Ringhiava, soffiava come un gatto. Mostrò le zanne, ma Carol non ci fece caso. La trascinò fuori per un orecchio, la guidò giù pel corridoio. Quindi lasciò la presa e disse: “Adesso, Dopey, vai in camera tua! Dritto in camera tua!”
    La tigre si allontanò solo di qualche passo poi descrisse un cerchio e si accovacciò sul pavimento.
    “Dopey!” disse la donna. “Ho detto in camera!”
    Il gattone la guardava, senza muoversi.
    “Quel figlio d’un cane si fa sempre più disubbidiente,” disse Carol. “Mi toccherà castigarlo. Ma mi dispiace. Gli voglio bene. Lo amo.”
    “Lo ami?”
    “Amo tutti i miei animali, sì, certo. Senti, e quel pappagallo? ti dà noia?”
    “Mi sa che il pappagallo lo sopporto,” risposi.
    “Accomodati, allora, e buona cacata.”
    Chiuse la porta. Il pappagallo mi guardava fisso. Poi si mise a dire: “Buona cacata! Buona cacata!” E scacacciò anche lui, contro la vasca.
    Quel pomeriggio e quella sera, chiacchierammo ancora. Mangiai come si deve. Non sapevo mica se ero desto o sognavo, se era tutta una visione dovuta al delirium tremens, o se ero impazzito, o se ero morto.
    Non so quanti animali d’ogni specie aveva Carol. Per lo più erano addomesticati. Era un vero e proprio Libero Zoo.
    C’era l’ora della passeggiata, l’ora “dell’aria e della cacca”, come la chiamava Carol. Li portava fuori all’aperto a gruppi di cinque o sei, li lasciava passeggiare in giardino. La volpe, il lupo, la scimmia, la tigre, la pantera, il serpente… insomma, siete stati a un giardino zoologico. Li aveva quasi tutti. Il fatto curioso era che gli animali non si davano noia a vicenda. Un po’ era perché mangiavano bene (la spesa per il vitto era enorme: il papà doveva averle lasciato un mucchio di quattrini) ma, arguii, più che altro era l’amore di Carol che li metteva in uno stato di gentile inerzia, di quasi divertita passività: una specie di estasi d’amore. Quegli animali, semplicemente, stavano bene.
    “Guardali, Gordon. Guardali là. Come puoi far a meno d’amarli? Guarda come si muovono. Ciascuno a modo suo, diversamente dagli altri, e ognuno è così vero. Mica sono come gli esseri umani. Hanno un contegno, non si sentono smarriti, non sono mai brutti. Hanno il dono… conservano il dono che avevano dalla nascita…”
    “Sì, capisco cosa vuoi dire.”
    … Quella notte non riuscivo a pigliar sonno. Mi misi qualcosa indosso e, a piedi scalzi, mi diressi verso il salotto. Mi fermai sulla soglia. Guardai dentro, senza esser visto, attraverso una tenda di pezzi di bambù.
    Carol completamente nuda stava stesa sul tavolino da tè, supina, a gambe divaricate. I piedi posavano in terra. Il suo corpo era bianco come il latte, eccitantissimo nel suo pallore, come se non avesse mai visto il sole. I suoi seni, non grandi, erano turgidi: si levavano come arditi promontori, e i capezzoli non erano scuri come quelli di tante donne, bensì rosei, d’un color rosso fuoco ma più chiari, rosa, come boccioli di rosa. Cristo, la dama dal seno gemmato di rose! E le sue labbra, dello stesso colore, eran dischiuse e sognanti. La sua testa reclinava lievemente oltre l’orlo del tavolinetto, i capelli castano rossicci ricadevano giù, fino a terra, leggermente mossi, a strascico sul tappeto. E il suo corpo pareva senza spigoli, liscio come un olio: come se non vi fossero giunture, nocche, né ginocchia né gomiti né spigoli. Una massa liscia come un olio. Solo i turgidi seni acuminati formavano un’asperità. E al suo corpo era avvolto un serpente: un lunghissimo biscione, di che razza non so. La sua lingua guizzava e la testa si muoveva avanti e indietro, presso la nuca di Carol, con un moto lento e fluido. Poi inarcandosi, il serpente esplorava la faccia di Carol – gli occhi, il naso, la bocca – come se si abbeverasse al suo viso.
    Ogni tanto il biscione strisciava pian piano sul corpo di Carol: un movimento che sembrava una carezza. Poi si contraeva leggermente, strizzandole e carni con delicatezza, serrando le sue spire intorno al corpo di lei. Carol fremeva, percorsa da sussulti, da brividi. Il serpente le strisciava sul collo con il capo, poi si levava arcuato, la fissava negli occhi, sulla bocca, poi ripeteva i vari movmenti. La sua lingua guizzava rapidissima e le cose di Carol erano dischiuse, il pube rosseggiava bellissimo, invitante, al lume della lampada.
    Tornai in camera mia. Viva la faccia di quel serpente, pensavo. Non avevo mai visto una scena del genere. Stentai parecchio a pigliar sonno.
    La mattina dopo, mentre facevamo insieme colazione, dissi a Carol: “Li ami proprio i tuoi animali, non è vero?”
    “Sì, tutti quanti, dal primo all’ultimo,” mi rispose.
    Seguitammo a mangiare in silenzio. Carol era più bella che mai. Radiosa, era. I suoi capelli parevano aver vita. La sua chioma pareva guizzare per suo conto, quando si muoveva. E la luce che vi pioveva dalla finestra dava risalto ai riflessi rossicci.
    Aveva gli occhi un poco dilatati, ma non certo per paura. Quegli occhi: assorbivano e esprimevano ogni cosa. Era animalesca, lei, oltre che umana.
    “Senti,” le dissi. “Se riesco a riavere il cappotto dall’orango, mi rimetto in cammino.”
    “Non voglio che te ne vada,” mi disse.
    “Vuoi che entri a far parte del tuo zoo?”
    “Sì.”
    “Ma sono un essere umano, io, sai.”
    “Però sei incontaminato. Non sei mica come loro. Hai ancora qualcosa che si muove, tu, dentro. Loro sono induriti, perduti. Tu sarai perso, ma indurito però no. Ti occorre solo di venir trovato.”
    “Ma può darsi che io sia troppo vecchio per essere… amato come gli altri animali del tuo zoo.”
    “Non… non lo so… mi piaci molto. Perché non resti? Forse ti troviamo…”
    Di nuovo, la notte seguente, non riuscivo a prendere sonno. M’alzai, andai a sbirciare in salotto, attraverso la cortina di bambù. Stavolta Carol stava distesa sul tavolo grande, al centro della stanza. Era un tavolo di noce, quasi nero, dalle zampe robuste. Carol vi stava a sponda, con le chiappe del culo sull’orlo, le gambe divaricate, i piedi che toccavano terra appena con le punte. Si copriva la fica con una mano. Poi la tolse via. E allora tutto il suo corpo parve avvampare, come a volte si fanno rosse le gote e il viso. Divenne tutta una vampa. Poi il suo corpo impallidì nuovamente. Restò un po’ di rossore sulla gola. Poi svanì. E la sua fica si dischiuse leggermente.
    La tigre girava intorno al tavolo, lentamente. Poi i suoi giri si fecero man mano più veloci, e la coda sferzava. Carol emise un gemito. Allora la tigre si fermò con il muso fra le cosce della donna. S’impennò. Posò le zampe davanti ai due lati della testa di Carol. Cacciò fuori l’uccello: gigantesco. E quell’uccello cominciò a picchiare contro la fica, cercando di entrare. Carol glielo prese in mano, per guidarlo dentro di sé. Tutt’e due fremevano e vacillavano perché il calore e il tormento erano quasi insostenibili. Poi la cappella entrò. Allora il tigre diede un colpo di reni e tutto il membro entrò. Carol diede un grido. Abbracciò il tigre, stretto stretto, intorno al collo, e il tigre attaccò a pompare. Io tornai nella mia stanza.
    Il giorno dopo pranzammo in giardino, insieme agli animali. Un picnic. Masticavo le mie patate lesse e guardavo una lince passeggiare insieme a una volpe argentata. Ero entrato in una dimensione totalmente diversa. La Contea aveva obbligato Carol a erigere un’alta rete di cinta. Però i suoi animali avevano parecchio spazio per girare, una vera boscaglia. Finito di mangiare, Carol si distese sull’erba, guardando il cielo. Mio dio, essere ancora un giovanotto!
    Carol mi guardò. “Vieni qui, vicino a me, vecchio tigre.”
    “Tigre?”
    “Tiger tiger, burning bright… Quando sarai morto se n’accorgeranno, perché vedranno le strie.”
    Mi coricai accanto a Carol. Lei si rigirò su un fianco, posò il capo sul mio braccio. La guardai. Tutto il celo e la terra si specchiavano nei suoi occhi.
    “Assomigli a Randalph Scott, con un po’ di Humphrey Gogart,” mi disse.
    Risi. “Sei buffa.”
    Seguitammo a guardarci. Mi pareva che avrei potuto annegarci nei suoi occhi.
    Poi l’accarezzai sul viso, ci baciammo, la trassi a me. La strinsi. Con l’altra mano le frugavo fra i capelli. Fu un bacio d’amore, un lungo bacio di puro amore. Tuttavia l’uccello mi s’armò. Il suo corpo si strusciava al mio, si muoveva come quello d’una biscia. Passò a piccolo trotto uno struzzo. “Gesù,” dissi. “Gesù, Gesù…”
    Ci baciammo di nuovo. Poi essa si mise a dire: “Oh, brutto figlio d’un cane. Ma cos’è che mi fai, brutto figlio d’una cagna?” Mi prese una mano e l’accompagnò sotto i suoi blue jeans. Tastai i peli della fica. Erano umidicci. La carezzai, poi infilai dentro un dito. Mi bacio selvaggiamente. “Figlio d’un cane! Figlio d’una cagna!” Poi si ritrasse.
    “Troppo in fretta. Dobbiamo andar pian piano…”
    Ci tirammo su a sedere e mi lesse la mano.
    “La linea della vita…” disse. “Non è molto che sei sulla terra. Guarda qua. Guarda il tuo palmo. Vedi questa linea?”
    “Sì.”
    “E’ la linea della vita. Ora guarda la mia. Io sono stata al mondo tante altre volte, prima di questa.”
    Carol era seria, e io le credetti. Bisognava crederle. Carol era tutto ciò in cui c’è da credere. La tigre ci stava a guardare da una ventina di metri. Una folata di brezza le mosse i capelli. Non resistetti. Ci baciammo ancora. Cademmo giù all’indietro. Poi essa si sciolse.
    “Tigre, figlio d’un cane, te l’ho detto: vacci piano!”
    Parlammo ancora. Poi mi disse: “Vedi… non so come esprimermi. E’ una cosa di cui sogno spesso. Il mondo è stanco. La sua fine è vicina. La gente ha perso il gusto della vita… si sono fatti di sasso. Nulla conta più niente. Sono stufi di sé stessi. Bramano la morte e la loro preghiera verrà esaudita. Io… io… come dire, sto preparando una nuova creatura che poi abiterà la terra, quel che ne resterà. Sento che anche altri, da qualche parte, stan preparando le nuove creature. Forse da diverse parti. Poi queste creature si incontreranno, si accoppieranno, la loro prole sopravviverà. Capisci? Però dovranno contenere il meglio di tutte le creature viventi, compreso l’uomo, allo scopo di sopravvivere, nel nuovo ambiente, dove ben poco resterà di ciò che c’è oggi… Sogni, sogni… Pensi che sia pazza?”
    Mi guardò e rise: “Pensi che sono davvero Carol la Matta?”
    “Non lo so,” le risposi, “non c’è modo di capirlo.”
    Di nuovo quella notte non riuscivo a dormire e m’alzai, andai a affacciarmi in salotto. Carol era sola, distesa sul sofà. Una piccola lampada era accesa. Era nuda, sembrava dormire. Scostai la tenda di bambù, entrai, mi sedetti su una sedia di fronte a lei. L’alone della lampada cadeva sulla parte superiore del suo corpo, il resto era in ombra.
    Mi spogliai, andai a sedermi sulla sponda del divano. Stetti a guardarla. Essa aprì gli occhi. Non parve sorpresa di vedermi. Ma le sue pupille scure, benchè limpide e profonde, erano come prive di espressione, come s’io fossi, non un individuo a lei noto, ma qualcos’altro: una forza estranea a me stesso. Tuttavia mi accettava.
    Sotto quel lume i suoi capelli erano come al sole: i riflessi rossicci avevano spicco. Come se un fuoco ardesse fra le chiome. Dentro, essa era come fuoco. Mi chinai a baciarla dietro l’orecchio. Il suo respiro era un po’ affannoso. Scivolai giù, in ginocchio, cominciai a leccarla sul seno, poi più giù, lo stomaco, l’ombelico, tornai al seno poi di nuovo scesi giù, fino al pube, cominciai a baciarla, a mordicchiare, quindi più giù, la baciai all’interno d’una coscia, poi l’altra. Ella si dimenò, emise un gemito: “ah… ah…” Allora accostai le labbra alla fessura, lentamente passai la lingua lungo le labbra della sua vagina, prima avanti, poi indietro. L’assaggiai sotto i denti. Infilai dentro la lingua due volte, ben in dentro, poi tornai a leccare tutt’intorno alle grandi labbra. Era bagnata adesso e aveva un sapore salmastro. Leccai intorno. Quel gemito: “ah… ah…” E il fiore si dischiuse. Vidi il piccolo bocciolo e con la punta della lingua, gentilmente, delicatamente, lo leccai e titillai. Non riuscì più a star ferma con le gambe. Smaniava. Cercava di abbracciarmi la testa tra le cosce. Risalii su, sempre leccandola tutta, soffermandomi ogni tanto, risalii fino alla fola protesa, la morsi sul collo, e il mio pene picchiava picchiava e lei lo prese in mano e mi accompagnò sulla soglia. Mentre la penetravo, le mie labbra si congiunsero alle sue: eravamo saldati in due punti: la bocca umida e fresca, il fiore umido e caldo – una fornace laggiù – e io tenni il mio arpione bel saldo, spinto in fondo, mentre lei si smenava sulle chiappe, ci si torceva intorno, implorante…
    “Figlio d’un cane, muoviti! figlio d’un cane, dài!”
    Restai fermo mentre lei smaniava tutta. Puntai i piedi contro il bracciolo del sofà e l’incalzai più addentro, sempre senza muovermi, senza pompare. Poi sempre stando fermo con le reni, impressi al pene alcune spinte verso l’alto, come balzi per conto suo. Essa rispose con delle contrazioni. Ripetei l’esercizio. E quando non ne potei più lo tirai tutto indietro, quasi fuori, lo tuffai dentro – calore e scorrimento – poi di nuovo, poi lo tenni duro e fermo mentre lei si dimenava intorno a me, com’io fossi l’arpione e lei il pesce. Ripetei diverse volte la manovra, poi, selvaggio e forsennato, cominciai a pompare a vita persa, e lo sentivo crescere, salivamo su su insieme uniti, fusi insieme – il linguaggio perfetto – salivamo su su, di là da tutto, oltre ogni cosa, oltre la storia, di là da noi stessi, oltre l’io, oltre la pietà, oltre ogni dire, al di là di ogni cosa tranne l’occulta gioia di assaporare l’Essere.
    Giungemmo insieme al culmine, e poi restai dentro di lei mentre il pene mi s’andava smosciando. La baciai. Le sue labbra erano molli, cedevoli. La sua bocca era sciolta, arresa a tutto. Poi Carol si alzò. Andò al bagno per prima. Poi io. Non c’erano tigri quella notte in giro. Solo questo vecchio Tigre, che era arso di fiamma viva.
    La nostra relazione seguitò così spirituale e sessuale insieme. Ma Carol seguitava – devo ammetterlo – anche a darsi agli animali. I mesi trascorrevano felici, tranquilli. Poi m’accorsi ce Carol era incinta. E m’ero fermato lì solo per chiedere un bicchier d’acqua!
    Un giorno andammo in città a far provviste. Come tutte le altre volte, chiudemmo la casa a chiave. Non c’era da aver paura dei ladri, del resto, grazie alla tigre e alla pantera e agli altri animali cosiddetti feroci che giravano per le stanze. Il vitto per le bestie ci veniva portato a domicilio ogni giorno. Ma per le nostre provviste andavamo noi stessi in città, a comprarle. Carol era conosciuta. Crazy Carol. E un sacco di gente le sbarrava gli occhi addosso, nei negozi. E guardavano anche me, adesso. Il suo nuovo animale.
    Quel giorno andammo anche al cinema. Il film non ci piacque. All’uscita, piovigginava. Carol comprò un abito adatto al suo stato, poi andammo a comprare le varie provviste. Tornammo a casa, senza fretta, chiacchierando e godendo di noi stessi. Eravamo contenti e soddisfatti. Non desideravamo niente più di quel che avevamo già. Di “loro” non avevamo alcun bisogno e non ce ne fregava niente di come la pensassero. Però il loro odio lo sentivamo. Eravamo diversi, estranei. Non si viveva con gli animali e gli animali – secondo loro – erano una minaccia per la loro società. E noi pure eravamo una minaccia per il loro sistema di vita. Portavamo vecchi vestiti. La mia barba era incolta. I miei capelli, benché avessi cinquant’anni, erano folti e rossi. A Carol i capelli scendevano fino alle reni. E trovavamo sempre qualcosa di cui ridere. Risate genuine. Loro non potevano capire. Al mercato Carol aveva detto: “Ehi, Babbo! arriva il sale! piglialo al volo, Babbo, su, vecchio bastardo!”
    Eravamo lontani l’uno dall’altra e c’erano tre persone in mezzo a noi, e lei mi tirò il pacchetto di sale a parabola, sopra il capo di quei tre. Lo presi al volo. Ridemmo tutt’e due. Poi guardai il sale.
    “No, no, figlia, puttana che sei! Mi vuoi far venire l’arteriosclerosi? Per me ci vuole il sale iodizzato! Prendilo al volo! E attenta al pupo! Gli verrà in tempo a pigliar botte, povero bastardo!”
    Carol afferrò il pacco che le rilanciai, e poi mi tirò quello giusto. Vedeste che facce facevano!... Ci trovano assai poco dignitosi.
    Insomma, avevamo trascorso una bella giornata. Anche se il film non c’era piaciuto, lo stesso c’eravamo divertiti. Ci facevam il cine da per noi. Anche la pioggia ci dava gusto. Tirammo giù il finestrino e la lasciammo entrare. Eravamo nei pressi di casa, quando Carol emise un lamento. Un gemito di profondo dolore. Si accasciò, divenne pallida.
    “Carol! Che c’è? Ti senti bene?” La trassi a me. “Che ti succede? Dimmelo.”
    “A me niente. Ma hanno fatto qualcosa. Lo sento. Lo so. Oh mio dio, mio dio… Oh dio, quei bastardi schifosi, l’hanno fatto, l’hanno fatto, quei luridi maiali.”
    “Fatto cosa?”
    “Li hanno ammazzati… tutti…”
    “Aspetta qui,” le dissi.
    Il primo che vidi, in salotto, fu Bilbo, l’orango. Aveva un foro di pallottola sulla tempia, la testa giaceva in una pozza di sangue. Morto ammazzato. Sul muso aveva il suo ghignetto. Quel ghigno esprimeva dolore, però misto a una strana ilarità come se, a vedere la morte, lui l’avesse trovata buffa: sorprendente, da non credere, e ciò l’aveva fatto ridere, in mezzo al dolore. Bene, adesso la sapeva pù lunga di me, in merito.
    Dopey la tigre l’avevano beccata nel suo cantuccio preferito: la stanza da bagno. Gli avevano sparato diversi colpi, segno che gli assassini erano spaventati. C’era un bel po’ di sangue, in gran parte già secco. Aveva gli occhi chiusi ma le fauci contratte in un ringhio, le bellissime zanne scoperte. Anche in morte era più maestosa di tanti esseri umani. Nella vasca c’era il pappagallo. Un solo colpo. Giaceva presso lo scarico, con il collo e la testa ripiegati, un’ala contratta e l’altra spiegata a ventaglio, come se avesse tentato, quell’ala, di gridare, in qualche modo, senza riuscirci.
    Guardai nelle altre stanze. Niente viveva più. Una carneficina. Morti l’orso bruno, il coyote, il procione. Tutti uccisi. Silenzio ovunque. Nulla si muoveva. Non c’era nulla da fare per noi. Restava solo da seppellirli. Quegli animali avevano pagato per la loro individualità, e per la nostra.
    Sgombrai il salotto e la stanza da letto, pulii il sangue alla meglio, poi feci entrare Carol. Doveva esser successo mentre eravamo al cinema. Tenni Carol abbracciata sul divano. Non piangeva però tremava tutta. L’accarezzai, cercai di consolarla. Ogni tanto il suo corpo era scosso da un sussulto, e gemeva: “Oooh, ohhh mio dio…” Dopo un paio d’ore buone cominciò a piangere. Restai accanto a lei, la tenni stretta. Alla fine s’addormentò. La spogliai, la misi a letto, la coprii. Uscii, feci un giro in giardino. Spazio ce n’era, nel prato dietro casa. Al posto del Libero Zoo avremmo avuto un camposanto degli animali, così, da un giorno all’altro.
    Impiegai due giorni a seppellirli tutti. Carol metteva su marce funebri sul giradischi, io scavavo le buche, ci mettevo le carcasse, le riempivo. Era insopportabilmente triste. Carol mise un cippo su ogni fossa. Bevevamo vino e non scambiavamo neanche una parola. Della gente veniva a vedere, sbirciavano attraverso la rete di cinta: adulti, bambini, giornalisti e fotoreporter. Alla fine del secondo giorni riempii l’ultima fossa. Carol mi prese il badile di mano e avanzò verso la folla assiepata. Si ritrassero, borbottando, spaventati. Carol scagliò la pala contro il recinto. Tutti si abbassarono e si protessero la testa, istintivamente, come se non vi fosse stata la rete.
    “Sarete contenti adesso, assassini!” gridò Carol.
    Rientrammo in casa. Lì fuori c’erano quarantacinque fosse.
    … Diversi giorni dopo, dissi a Carol che potevamo metter su un altro serraglio, e stavolta lasciar sempre qualcuno di guardia.
    “No,” mi disse. “Ho sognato… i sogni m’avvertono che la fine è prossima. Tutto finirà fra poco. Abbiamo fatto appena in tempo. Ce l’abbiamo fatta.”
    Non le feci domande. Aveva già patito abbastanza. Quando fu vicina al parto, Carol mi chiese di sposarla. Non le importava del matrimonio in sé ma, siccome non aveva parenti, voleva che io ereditassi la casa e la terra. Nel caso cioè che morisse di parto e che i suoi sogni si sbagliassero, circa la fine.
    “I sogni possono sbagliarsi,” mi disse, “anche se, finora, i miei non si sono mai sbagliati.”
    Così ci sposammo: al cimitero. Per compare d’anello rimediai un mio vecchio amico dei bassifondi. Di nuovo si radunò una piccola folla. La cerimonia finì presto. Regalai al mio amico un po’ di soldi, del vino, e lo riaccompagnai nei bassifondi.
    Così, parlando e bevendo a garganella, mi domandò: “L’hai messa incinta, eh?”
    “Sì, credo di sì.”
    “Vuoi dire che c’erano anche altri?”
    “Hm… sì.”
    “Le donne sono tutte uguali, sai. Non si può mai sapere. La metà di ‘sti morti di fame, sono caduti in basso per colpa d’una donna.”
    “Credevo per il bere.”
    “Prima le donne, il bere viene dopo.”
    “Capisco.”
    “Non si può mai sapere con le donne.”
    “Oh, io lo sapevo.”
    Il mio amico mi guardò in un certo modo. Poi ci salutammo.
    Carol andò a partorire all’ospedale. Io aspettavo nella sala d’attesa. E pensavo: che buffa vicenda. Dai bassifondi a quella casa verde, e tutte le cose strane che mi eran capitate. L’amore e il tormento. Ma nonostante tutto, l’amore aveva vinto il duello contro l’angoscia. Non era finita però. Cercai di leggere la pagina sportiva di un giornale. Non me ne fregava niente, del campionato, delle corse. E quei sogni. Quei sogni di Carol. In lei credevo ma ai suoi sogni… chissà! Cosa sono i sogni? Non lo sapevo. Poi vidi il medico parlare con un’infermiera. Mi appressai.
    “Oh, sua moglie sta bene, Mister Jemmings,” mi disse. “E il… rampollo è un maschio. Quattro chili e duecento.”
    “La ringrazio, dottore.”
    Salii in ascensore. Mi accostai al tramezzo di vetro. Ci saranno stati un centinaio di neonati che urlavano. Li udivo attraverso il vetro. Senza tregua. Nasci piangendo. La nascita. E poi la morte. A ognuno tocca. Entriamo dentro soli e usciamo fuori soli. E molti di noi, la maggior parte, viviamo soli, spaventati, vite incomplete. Una tristezza senza pari discese su di me. A vedere tutta quella carne appena nata che doveva morire. A osservare tutta quella vita che si sarebbe a poco a poco trasformata in odio, demenza, in nevrosi, in stupidità, in terrore, in omicidio, e infine in nulla… nulla in vita e nulla in morte.
    Dissi il mio nome all'infermiera. Essa entrò nella sala di vetro e trovò il nostro bambino. Mentre lo sollevava, sorrise. Un sorriso tremendo, pietoso. Per forza. Guardai quell’esserino: impossibile, scientificamente impossibile: era una tigre, un orso, un serpente e una creatura umana. Era un alce, un coyote, una lince e un essere umano. Non piansi. I suoi occhi mi guardarono e mi riconobbero, e io lo conoscevo. Era intollerabile, Uomo e Superuomo, Superuomo e Superbestia. Era del tutto impossibile. E mi guardava, guardava me, suo padre, uno dei suoi padri, uno dei tanti e tanti padri… e in quella qualcosa scosse l’edificio, l’ospedale tremò, cominciò a traballare, i bambini si misero a urlare più forte tutti insieme, le luci si spensero, un lampo rossiccio mi abbagliò la vista. Le infermiere strillavano. I tubi fluorescenti si staccarono dal soffitto, caddero sulle culle. L’infermiera con in braccio mio figlio stava là e sorrideva, mentre la prima bomba all’idrogeno cadeva su San Francisco.

     
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