Battaglia Eterna

Adriano Muzzi

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    Adriano Muzzi

    BATTAGLIA ETERNA







    Sono trascorsi sei numeri da quando abbiamo pubblicato “I sogni che fanno i delfini” (Continuum n°19), l’ultimo racconto di Adriano Muzzi apparso sulle nostre pagine.

    Questo gradito ritorno è ben poco onirico, in realtà, perché nella presente storia dal titolo che rievoca il capolavoro di Joe Haldeman, possiamo trovare la crudezza delle grandi epopee di guerra. Assistiamo così all’autodistruzione (voluta dagli spietati Cyb) di un’umanità allo sbando, che forse non meritava un destino migliore ma che si può aggrappare ancora ad un’unica, fiebole speranza…

    Un racconto toccante che parla di alcune delle paure più radicate nell’animo dell’uomo: quelle della morte, del dolore, della schiavitù, della solitudine e dell’avvenire delle generazioni future.

    Roberto Furlani















    “Benvenuto all'assurdo macello, nella trincea come un animale.

    Ti hanno descritto il nemico cattivo, come un feticcio da trucidare.

    Ma l'ho visto voltare nel fango per sopravvivere e disperare.

    Abbiamo occhi, braccia ed orecchie, la stessa bocca per parlare.”



    'Carne da cannone' - Cisco e la casa nel vento









    La navicella si muoveva sopra il suolo lunare bucando silenziosamente l’universo stellato. Visi cerei guardavano dagli oblò, scorgendo solo le montagne slavate ma cercando delle forme che ricordassero qualche fisionomia familiare. Crateri naturali e non, si alternavano con valli di silicio immacolate; all’orizzonte la vecchia Terra stava sorgendo ancora una volta.

    “Come lo vuoi il panino Vladimir?”

    Guardai costernato gli occhi del mio compagno, non capivo che importanza avesse il sapore del cibo in quella circostanza. E’ come quando disinfettano l’ago dell’iniezione letale per il condannato a morte. Pura pazzia delirante.

    “Al prosciutto va bene, grazie”, dissi con un filo di voce. I miei pensieri erano tutti verso i miei cari: mia moglie e mio figlio Stanislao.



    “Non partire amore mio, non partire!” Lacrime bagnavano la sua guancia e il mio collo. Mi stava stringendo in un modo che non avevo mai sentito. Il mio cuore, se ancora batteva, si era ridotto a una castagna rinsecchita. Mi sentivo spaccato in due come se fossi stato colpito da un fulmine implacabile. Il mio stomaco e l’intestino si erano ripiegati insieme a formare un tutt’uno. Non avevo parole, non avevo forza per piangere, non avevo forza per consolarla. Non avevo più una vita mia, una speranza nel futuro che era diventato improvvisamente nero. Una spirale senza fine mi stava per risucchiare dentro le sue fauci inclementi e io sarei precipitato giù nell’oblio per sempre.

    “Avevi promesso di portarmi sempre ed ovunque con te. L’avevi promesso quella sera, quella sera…”

    “Amore, lo sai che per noi Carbo non c’è altra possibilità. Il nostro destino è stato scritto tanto tempo fa, quando i Cyb ci hanno sopraffatto. Se vado ho qualche speranza in più. Loro non hanno pietà per chi diserta.” Le dissi, senza guardarla in quel mare salato in cui galleggiavano due vivaci occhi verdi. Non avevo coraggio d’incrociare la sua anima supplicante.

    Non disse niente, sentii solo che singhiozzava sempre più forte. Ormai la mia maglietta era completamente bagnata come la miccia della mia storia futura.

    La porta si aprì: due Cyb in tenuta da polizia si precipitarono davanti a noi senza convenevoli, senza nessuna umanità.

    “Dobbiamo andare, Carbo Lem Vladimir!” Dissero con la loro classica voce metallica e senza un briciolo d’intonazione. Le loro pupille d’acciaio mi fissavano senza un minimo tremito, a differenza delle mie, in preda a un ballo Parkinsoniano.

    Mia moglie si avventò contro il primo Cyb: “Bastardi, vi odio! Perché volete il mio uomo? Perché? A cosa serve questa guerra eterna sulla Luna? Volete ammazzarci tutti, volete estinguere il genere umano!” Con i pugni chiusi batteva sul petto metallico del Cyb che non la degnava nemmeno di uno sguardo. Loro volevano me.

    “Ci vediamo presto, stai tranquilla, ritornerò. Dai un bacio a Stan. Ti amo e ti amerò sempre, qualsiasi cosa possa accadere. Per sempre.” Il cuore, così mi parve, si fermò per qualche secondo.

    “No, no!!!” Mentre i Cyb mi trascinavano fuori, mia moglie si era avvinghiata a me. Cadde, ma continuò a stringere una mia coscia, poi un mio piede. Perse la presa. Persi il mio amore, la mia famiglia. Persi tutto per andare a combattere contro altri uomini come me. A combattere per i Cyb perché pensavano che, visto il nostro passato cruento, fosse il modo migliore di tenerci occupati. Forse non avevano tutti i torti.



    Arrivammo alla base Omega della prima linea, Coalizione Blu. L’altra era la Coalizione Rossa. I Cyb erano stati infantili nella scelta dei nomi o probabilmente, se ne erano capaci, nascondevano un forte senso dell’ironia.

    La navicella si portò sulla piattaforma dell’edificio principale e iniziò a scendere dolcemente, guidata magistralmente da un’intelligenza non umana.



    Il mio turno in trincea era appena iniziato. Oggi dovevamo fronteggiare un tentativo d’attacco, abbastanza violento, della Coalizione Rossa. La mia visiera si appannava continuamente, non so se per la paura o per qualche problema nel mio casco pressurizzato. Era difficile, in quelle condizioni, tenere sotto mira il terreno davanti a me. Gocce di sudore mi scendevano lungo le tempie. Il mirino elettronico inquadrava, come fosse una televisione, un rettangolo di Luna: montagne, mari, polvere, tutto rigorosamente bianco. Di un bianco accecante. All’improvviso un’ombra entrò nel mio campo visivo artificiale. Feci fuoco una prima volta, mancando la figura che si stava muovendo a zig zag. Feci fuoco una seconda volta e vidi il corpo ripiegarsi su se stesso per poi accasciarsi al suolo alzando una nuvoletta di polvere. Un brivido attraversò, gelido, la mia schiena.

    “Bravo Vlad, bel colpo!” Era il mio tenente: un tipo che si ergeva a capo carismatico ma era un poveraccio strappato dai suoi affetti, come me. E come quello che avevo appena ucciso. Mi girai fissando il tenente negli occhi, distolse lo sguardo.

    Che sei solo come me, lo so dagli occhi.

    “Dai Vlad, è il nostro lavoro e dobbiamo farlo bene. Solo così avremo delle possibilità di ritornare a casa per una licenza premio. Lo sai che loro ci osservano.” Nei caschi avevamo installata una piccola telecamera, per il loro divertimento. Ognuno aveva il suo ruolo, ben delineato, da svolgere diligentemente.

    Non feci in tempo a rispondere: un lampo di una qualche arma al plasma squarciò il cielo. Vidi esplodere il suo casco con una piccola fiammata. Improvvisamente si stagliò davanti a me la sua faccia nuda, bruciata, senza capelli e sopracciglia. Fu un attimo, anche quella deflagrò sparando pezzi di cervello e sangue da tutte le parti. Una parte del suo encefalo si spiaccicò sulla mia visiera. Urlai e caddi all’indietro terrorizzato. Aprii gli occhi: stava ancora lì. Pulii la visiera con il guanto e mi rizzai in piedi. I miei compagni stavano cercando di respingere l’ennesimo attacco. Facevo fuoco sul nemico e pensavo alla moglie del tenente, alla moglie di quelli cui sparavamo, a mia moglie.

    Una pattuglia di soldati nemici, non so come, penetrarono nel nostro schieramento. Uno di loro, l’ebbi improvvisamente addosso. Cercai di sparargli, ma lui con un calcio mi fece volare il fucile. Mi tuffai, disarmandolo a mia volta. Tirò fuori un coltello, lo bloccai al polso. Rimanemmo così per alcuni istanti, poi, riuscii a piegargli il braccio fino a recidere la sua tuta all’altezza del collo. Sentii un sibilo amplificato dal microfono esterno. Le nostre visiere si toccarono: i suoi occhi erano spalancati, la bocca semiaperta in una smorfia di stupore.

    Che sei solo come me, lo so dagli occhi.

    La sua paura defluì attraverso i suoi occhi nei miei facendomi indietreggiare di un passo. L’uomo si portò le mani al collo e poi, probabilmente congelato, cadde all’indietro e rimbalzò su una roccia.

    Mi accorsi che anche i miei compagni erano impegnati in simili corpo a corpo. Mi mossi verso quello più vicino per aiutarlo.



    Una granata Sartor si insinuò nel nostro bunker: il tempo si fermò. Vidi chiaramente le facce costernate dei miei compagni; non credevano che la morte potesse avere quella forma, che lasciasse un microsecondo dilatato all’infinito per riflettere sulle proprie vite. Increduli che tutto potesse finire il quel modo, senza parole di commiato, baci ai familiari e preghiere a un Dio qualsiasi disponibile in quel momento.

    Fantasmi si agitavano davanti a me, tendendomi la loro mano immateriale. Io cercavo di afferrarla e cadevo in un pozzo senza fine e pieno di cadaveri vestiti tutti di rosso o tutti di blu.

    Avrei voluto saltare fuori, scappare, muovermi in qualche modo. Ma le mie gambe erano pesanti come macigni di piombo: era come vivere in un fermo immagine. Non lo guardavo da fuori ma ne ero dentro. Dentro fino al collo. Nella pupilla del soldato di fronte a me vidi la mia faccia riflessa, vidi la mia bocca spalancata e il terrore che mi invadeva. Vidi delle sagome dietro di me che sghignazzavano divertite, tenendosi per mano. No, non erano umani come me, ma Cyb.

    Poi, all’improvviso, tutto diventò luce e calore, e il buio calò sopra di me.



    ***




    "Ti permetterò d'essere nei miei sogni se io posso essere nei tuoi."

    Bob Dylan





    Il lampadario della mia camera da letto, un Cyb, mia moglie e mio figlio. Ancora buio.

    “Vladimir, Vladimir amore mio!”

    Il lettino era diventato troppo stretto per me. Api colorate, guidate da una musica dolce, danzavano sopra la mia testa. La mamma mi carezzava delicatamente i capelli e io ridevo. Un pioppo, reso d’oro dal sole, ondeggiava al vento lieve della primavera. Dalla finestra entrò una piuma bianca, sembrava un fiocco di neve.

    “Vladimir! Vladimir, svegliati!”

    Al funerale di nostra madre mio fratello non venne. Non poteva, essendo morto un mese prima in guerra. Una madre non dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli. Mio figlio Stan, come sta mio figlio Stan?

    “Vladimir, amore mio, mi senti?”

    Vedevo mia moglie ma non riuscivo a profferire parola. Il letto sembrava un’enorme calamita che bloccava le mie mani e i miei piedi. Mio figlio aveva una faccia triste e imbronciata. C’era anche un Cyb, sembrava un MedCyb. Stava dicendo a mia moglie: “Signora, suo marito è stato gravemente danneggiato a livello cerebrale. Noi l’abbiamo curato per quanto di nostra competenza.” Il Cyb guardava un punto imprecisato della parete.

    “Con questa medicina si riprenderà e potrà vivere una vita normale. Ma la somministrazione dovrà essere continua e massiccia. Purtroppo voi unità Carbonio siete fatti molto male, non avete elementi di autoriparazione. Non siete ridondati come noi in ogni parte funzionale, compreso il cervello.” Il suo sguardo impassibile parve esprimere un senso di pietà, ma fu solo un istante. Solo un’illusione.

    “Grazie dottore, mi dia la medicina e vada via.”

    Il MedCyb, senza battere ciglio, posò il flacone sul comodino e uscì dalla porta della camera da letto.

    “Moglie”, dissi con un rantolo.

    “Amore!” Mi strinse così forte da farmi mancare il mio già debole respiro e mi baciò in tutti i punti liberi da garze, pochi in verità. Ero tornato a casa.

    “Ma che ti hanno fatto quei bastardi? Li voglio vedere tutti fusi! Schifosi!”

    Mio figlio si avvicinò timidamente ai bordi del letto e mi prese la mano. Non lo vedevo bene ma sentivo il suo calore.

    “Stan, come tai… stai? Papà adesso à bene, andrà sempre meglio, steffina… stellina mia.” Gli strinsi la mano e mi accorsi che era diventato un uomo.

    “Papà, mi porterai ancora a pescare? Andremo insieme?”

    “Certo Stan, io e te”, feci una pausa per prendere fiato.

    “E tornere…mo con una bella trota gigante da far cufinare alla mamma.” Risero e mi abbracciarono, baciandomi sulle guance. Avrei voluto che quell’istante durasse per sempre.



    Due mesi dopo eravamo sul bordo del fiumiciattolo dietro casa. Con i nostri stivaloni, le canne da pesca, le esche e il cestino di vimini per il ‘bottino finale’. A pensare che tanto tempo fa quella situazione sarebbe stata ordinaria mi veniva da piangere. Avevamo sprecato tutto. Ora eravamo sottomessi da pezzi d’acciaio con le gambe, che ci stavano facendo ammazzare tra noi come cani rabbiosi.

    Gli arbusti che affioravano lasciavano una scia a forma di freccia nell’acqua giallastra che scorreva lentamente. Una papera con quattro piccoli anatroccoli disegnava delle curve a serpentina risalendo la corrente. Sembravano legati da un filo invisibile come perle facenti parte di un'unica collana.

    La luce del crepuscolo del mattino si faceva strada tra gli alberi di Eucalipto illuminandoli di rosa. Dal Sole sembrava che partissero dei raggi laser che ritagliavano i profili dei tronchi.

    “Papà torniamo dalla mamma, tanto oggi non è giornata.”

    “E’ vero, dai prendiamo le nostre cose e incamminiamoci.” Gli detti una pacca sulla spalla immaginando la sua delusione; spesso le cose troppo attese si rilevano inferiori alle aspettative.



    “Vladimir, Stan! Meno male che siete tornati!” Mia moglie era visibilmente sotto shock: aveva i capelli in disordine e non riusciva a stare ferma un attimo.

    “Cosa è successo?” Dissi con le tempie che mi pulsavano violentemente.

    “Ha telefonato il MedCyb, non ti daranno più la medicina. Io glie l’ho detto, gli ho spiegato… ma non c’è stato niente da fare. Vedrai faremo …”

    “Moglie!”

    “Faremo in qualche…”

    “Moglie! Stai calma, lo so che non è colpa tua. Calma. Ti hanno spiegato il motivo per cui sospendono la cura?”

    “Sì, dicono che è passato troppo tempo e non vogliono più spendere soldi e tempo per te: un semplice e imperfetto Carbo. Amore, come faremo?” Disse, tirando su con il naso per trattenere l’imminente pianto.

    “Non lo so, non lo so.” Mi sentii mancare. Sapevo che per me quella era la fine. Mi era andata troppo bene fino a quel momento: avevano curato la bestia da ‘circo’, ma ora si erano stufati del gioco. La mia vita non valeva il costo di quel flacone di pasticche.

    Mia moglie e mio figlio si strinsero a me e il pianto comune diventò un’onoranza funebre, il mio requiem privato.



    Passarono i giorni e la mia salute peggiorò progressivamente fino ad allettarmi nuovamente. Non sentivo più le gambe, e le mani mi tremavano come pennini di un sismografo scossi da un terremoto interno. La mia vista si era annebbiata, ma ero ancora lucido.

    “Amore come stai oggi?” Disse mia moglie con un viso che sembrava improvvisamente invecchiato di quindici anni.

    “Bene, bene.” Dissi poco convinto e con strane farfalline che giocavano al girotondo sulle mie retine. Musiche arcaiche affollavano le mie orecchie ma non c’era nessun riproduttore musicale in azione, la musica era vietata in quel tempo.

    Ero preoccupato per mio figlio, e per tutti i figli del mondo. La loro comune fine era già stata scritta da un’altra razza ‘superiore’: i Cyb. Li avrebbero trucidati tutti, senza pietà e senza rimpianti. Bisognava fare qualcosa. In passato si era già tentata una rivolta che era finita in una carneficina in cui furono coinvolte anche donne e bambini. Però così non poteva andare avanti, si doveva tentare.

    “Stan.”

    Sentii i suoi passi affrettati sul pavimento del salone.

    “Sì papà?”

    “Avvicinati Stan” , gli feci segno con la mano.

    “Senti figlio mio, tu sai che prima o poi ti chiameranno per la ‘battaglia eterna’ sulla Luna.”

    “Sì, lo so pa’.”

    “Quando quel giorno arriverà dovrai consegnare dei documenti segreti, contenuti in un microfilm, alle persone che adesso ti dirò. Devi imparare i nomi a memoria e il microfilm lo nasconderai con un impianto sottocutaneo.”

    “Ma papà …”

    “Stan! Devi farlo. Per te stesso e per i tuoi figli. Devi garantire loro un futuro che io non ho saputo donarti. Dobbiamo cercare un dialogo con i Cyb. Per creare una democrazia ci dobbiamo mettere sullo stesso livello; colloquiare guardandoci negli occhi con la giusta empatia.”

    “Va bene pa’, spiegami tutto. Non capisco ma sono pronto.”



    Ormai riuscivo a muovere solo la palpebra sinistra. E con quella mi facevo capire: chiusa ed aperta una volta, sì; due volte, no.

    Mi stavo esaurendo come una vecchia pila non ricaricabile; sentivo la vita uscire da me come fa l’aria da un palloncino di gomma. Sì, la parola giusta per definire il mio stato era proprio quella: mi stavo ‘svuotando’.

    Mia moglie ogni qual volta entrava nella stanza si metteva a piangere ma cercava di nasconderlo il meglio possibile. Quando sei nelle mie condizioni, le persone, anche le più care, tendono a sottovalutare la tua capacità di comprensione.



    Lei aveva fatto di tutto per farsi ridare la medicina ma non c’era stato niente da fare: i Cyb erano stati ancora una volta insensibili.

    Mi sentivo, ogni ora che passava, una foglia sbattuta dal vento e sempre in procinto di cadere, di volare altrove. Comunicai a mia moglie, con la palpebra, la mia precaria situazione.

    “No amore mio, no! No! Resisti non morire, forse domani riesco a farmi dare la medicina da un mercato parallelo. Resisti!” Disse con gli occhi pieni di lacrime.

    Feci segno di sì.

    Ora ascoltavo solo la sua voce perché non riuscivo più a vederla. Solo una sagoma indistinta con i contorni tremolanti. Scorgevo un fuoco su cui era stato deposto un cadavere: un antico rito pellirosse o qualcosa di simile. Sentivo il calore, vedevo le scintille incandescenti che zampillavano come lapilli da un vulcano. Qualcuno mi stava contemporaneamente schiacciando il petto con un macigno e tappando la gola con uno straccio caldo. Aiuto! Aiutatemi per l’amor di Dio…

    “Vladimir, amore mio!”

    Tutto diventò luce e calore, e il buio calò sopra di me.



    Bussarono alla porta di casa. Stan aprì e si trovò davanti due Cyb.

    “Carbo Lem Stanislao, devi venire con noi!”

    “Perché, cosa volete da mio figlio?”

    “Signora, è arrivato il momento della partenza per la guerra extramondo.”

    “No, anche mio figlio no, no! Ha solo sedici anni. Prendete me, vi prego!”



    Stan si preparò come sapeva e come doveva. Gli insegnamenti del padre non sarebbero andati persi. Per l’ultima volta guardò negli occhi la madre. Lei, ormai disperata, ricambiò lo sguardo. Il tempo sembrò fermarsi per sempre.

    Che sei sola come me, lo so dagli occhi.












     
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