In Silenzio

Fabio Calabrese

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    Fabio Calabrese



    IN SILENZIO







    Una porzione molto (troppo) rilevante della cultura occidentale si erge su stereotipi e luoghi comuni, che vengono assunti come dogmi senza che vi sia interposto il benché minimo filtro analitico.

    In questo bel racconto di fantascienza sociologica, Fabio Calabrese smonta uno degli assiomi che ormai appaiono profondamente radicati nella nostra civiltà, a qualsiasi livello socio-culturale: il potere anticonformista e salvifico della musica.

    Un Calabrese al meglio che torna prepotentemente alla sf sociologica, dopo tante riuscite incursioni nella fantascienza ortodossa, con una storia che brilla per sviluppo e originalità del pensiero.

    Roberto Furlani









    Avete presente quelle giornate che cominciano male di prima mattina fin dal momento che aprite gli occhi? Bene, la mia era una di quelle, me la ricordo ancora benissimo nonostante il tempo trascorso. Alzai gli occhi sul quadrante luminoso della sveglia incorporata alla testiera del letto e vidi che ero in ritardo, mi sarebbe toccato saltare la colazione se non volevo arrivare tardi al lavoro.

    Io di solito la suoneria della sveglia non la inserisco mai; per abitudine inveterata mi sveglio sempre alla stessa ora con precisione, con lo scarto di pochi minuti, e quest’abitudine non mi ha mai tradito se non pochissime volte; bene, questa era una di quelle pochissime volte. La sera avevo fatto tardi con gli amici e bevuto più porcherie del dovuto.

    Quando mi ero buttato sul letto, ero caduto in un sonno punteggiato di sogni angosciosi e per nulla ristoratore, solo verso il mattino doveva essersi fatto più regolare e plumbeo.

    Mi alzai di scatto e corsi sotto la doccia per cacciare alla svelta gli ultimi brandelli di sonno.

    La saponetta poggiata sul portasapone sgusciò via dalle mie mani come se fosse stata viva.

    Mi chinai affannosamente per riprenderla, intercettando con gli occhi proprio lo zampillo della doccia.

    Accecato, misi il piede proprio sulla suddetta saponetta. Non mi produssi in un ampio scivolone perché il cubicolo della doccia era troppo stretto: di base un metro per un metro all’incirca, in compenso, diedi contro il muro una zuccata feroce che mi fece vedere tutte le stelle della galassia ed anche qualcuna sconosciuta agli astronomi.

    Mi rialzai: avevo un taglio e probabilmente fra poco mi sarebbe venuto anche un bell’ematoma sulla fronte sopra il sopracciglio sinistro. Raccolsi l’auricolare che mi era caduto e lo rimisi all’orecchio: niente, morto, assolutamente silenzioso, non emetteva alcun suono.

    L’idea mi venne improvvisa: normalmente si usa che se l’auricolare si rompe, si va immediatamente a farselo sostituire. Non si vedeva che era rotto, me lo rimisi all’orecchio, felice di poter fare a meno per un po’ del suo infernale strepito.

    Feci il percorso della metro pubblica avvolto in un silenzio che mi sembrò innaturale. In realtà, di silenzio non ce n’era affatto: i sibili pneumatici dei convogli, lo scalpiccio dei passi, i respiri, gli ansiti, gli sbuffi della gente che si accalcava intorno a me, il gracchiare in sottofondo della musica dei loro auricolari, ma abituato com’ero alla musica che mi rimbombava nelle orecchie, mi pareva di muovermi in un mondo ovattato e silenzioso.

    Sul lavoro, mi trovai in difficoltà, scoprii a mie spese che è vero quel che si dice, che la musica sparata attraverso gli auricolari contiene una serie d’istruzioni subliminali che ti guidano nel lavoro, almeno per i lavori di tipo operaio è così: ti metti al tuo posto e continui ad ascoltare la musica, mentre il tuo corpo fa tutte le azioni richieste in automatico, e solo a fine turno ti accorgi, ma nemmeno tanto, della stanchezza che hai accumulato.

    Pensare i singoli gesti uno per uno, anche se il mio corpo era abituato, era molto più faticoso.

    Cosa volete? In quel momento mi dispiacqui come non mai di non essere riuscito a diventare qualcuno posto qualche gradino più in alto sulla scala sociale, ma siamo sinceri: solo i figli dei ricchi od almeno della classe medio – alta possono permettersi le scuole private che consentono di diventare dei professionisti; la scuola pubblica non vale nulla e non porta da nessuna parte.

    Come vi dicevo, ero in difficoltà ed il lavoro mi sembrava pesante il doppio del solito, difficoltà che avrei potuto risolvere subito segnalando la rottura dell’auricolare, mi sarebbe stato immediatamente sostituito, ma il senso di libertà che provavo non avendo le orecchie ed il cervello ingombri di frastuono, era troppo forte e troppo bello.



    “Ma guardati, fai schifo!”

    Verouska aveva gli occhi spiritati e la voce tagliente come un rasoio.

    Ero andato a sedermi ad uno dei tavolini in fondo alla discoteca, quasi sempre vuoti, con il mio drink appena sorseggiato: non avevo alcuna voglia di ballare, di dimenarmi al ritmo di una musica frenetica ed assordante consumando energie quante ne basterebbero per erigere un muro di mattoni, fino a stordirsi, fino ad essere svuotato di forza e ad avere bisogno delle pasticche per tenersi su. Più che un divertimento, l’avevo sempre trovato una forma di violenza da subire per non essere escluso dal gruppo.

    Verouska era la classica “gatta” del gruppo, credo che si fosse sbattuta tutti i maschi della banda ad eccezione di me. In quel momento ero “sotto” di due settimane, erano almeno quindici giorni che non mi facevo nessuna tipa, ed il mio rifiuto di ballare con lei le giungeva doppiamente incomprensibile: non avevo voglia di ballare, ma era anche il fatto che uno doveva proprio essere ridotto alla disperazione e non avere più un briciolo d’orgoglio per andare con una che si era fatta letteralmente tutti.

    “Ma cosa sei, una specie di finocchio?”, continuava lei sarcastica.

    “Cosa succede qui?”

    Bonzo si era portato al fianco di Verouska. Bonzo era l’uomo forte del nostro gruppo, era un culturista palestrato ed aveva una taglia che era il doppio della mia.

    Mi squadrò senza nessuna traccia di benevolenza.

    “Mi sa che Verouska ha ragione”, disse in tono cattivo, “Dovresti proprio guardarti, fai davvero schifo. Quei due cosini microscopici che hai sul labbro e sul naso li chiami piercing? Capelli corti e senza tintura, nemmeno una crestina fatta col gel. Da quanto tempo non ti fai un tatuaggio? Cosa ti succede, ti stai rammollendo? Sei diventato un conformista, un borghese, magari un reazionario, un fascista?”

    Non sapevo cosa rispondergli, non conoscevo il significato di nessuno di quei quattro termini, ma non li conoscevano nemmeno gli altri, erano solo insulti in ordine di gravità crescente.

    “Un mollusco come te osa insultare Verouska?”

    Mi parve che un treno espresso lanciato a tutta velocità mi avesse colpito in piena faccia appiattendomi il naso, i pugni di Bonzo erano pesanti come dei magli. L’intontimento era tale che per un secondo non sentii nemmeno dolore ma solo il sentore caldo e bagnato del sangue che dal naso mi colava giù per la faccia, poi il dolore ritardatario esplose come un’eruzione vulcanica.

    “Cosa succede qui?”

    Quattro buttafuori del locale ci circondarono, quattro energumeni più robusti di Bonzo.

    “Niente”, rispose Bonzo con un sorriso falso, “solo una piccola discussione fra amici”.

    “Balle”, disse uno dei quattro gorilla, “Abbiamo visto. Questo tizio sta cercando rogne”.

    Mi afferrarono rudemente e mi trascinarono per tutto il locale fino alla porta, quindi mi buttarono fuori senza tanti complimenti.

    La porta della discoteca si chiuse con un tonfo secco alle mie spalle, ed io iniziai una lotta dolorosa per rimettermi in piedi. Vidi che il sangue che non smetteva di colarmi dal naso aveva inzuppato tutta la camicia sul davanti.

    M’incamminai barcollando nel buio. Dal naso mi si spandeva per tutta la faccia un dolore atroce, avevo un solo desiderio: tornarmene a casa.

    “Ehi bello, dove credi di andare?”

    Avevo appena raggiunto uno dei radi coni luminosi dei lampioni di un’illuminazione pubblica alquanto scarsa, ed era stato un errore perché il buio era una protezione.

    Dall’oscurità erano emersi quattro o cinque tipi dall’aria sbiellata che bilanciavano fra le mani delle aste lunghe e spesse, bastoni o forse spranghe.

    “Guardalo il signorino”, disse uno di questi, “sembra proprio un hobo”.

    Gli hobos erano il nostro gruppo. Quei cinque, li riconobbi dalle casacche, erano degli stoneheads, le “teste di pietra”, una banda rivale, e sembravano fatti di uno sballo acido, cattivo.

    “Che c’è, cuccioletto?”, proseguì quello, “Hai perso la pista del tuo branco ed ora ti senti solo ed abbandonato? Dovresti sentirti peggio di così, perché sei morto”.

    Le sue parole furono subito seguite da un tremendo calcio al basso ventre che mi lasciò boccheggiante e piegato in due per il dolore, poi gli altri mi furono addosso.

    Sentii la botta lancinante di una spranga che mi arrivava su di una spalla, poi una specie di affondo alla bocca dello stomaco con l’estremità di un’altra spranga mi fece vomitare.

    Quelli si misero a ridere.

    “Guarda che maiale!”

    Un altro colpo durissimo mi arrivò in pieno petto. Non riuscivo più a respirare, mi sembrava di avere i polmoni pieni di scintille infuocate.

    Capii che le teste di pietra non si sarebbero fermate fino a quando non mi avessero ucciso, che ero spacciato. Che modo assurdo, pensai, di chiudere la propria esistenza!

    All’improvviso una voce attraversò la nebbia sanguigna nella quale stava sprofondando la mia coscienza.

    “Cinque contro uno: bravi, coraggiosi, dei veri eroi!”

    “Di che t’immischi, nonno?”, replicò sprezzante una testa di pietra.

    Il suono della sua voce fu subito seguito da quello metallico di una spranga che rotolava sul selciato e da un lamento come di qualcuno che ha avuto un arto spezzato.

    Con l’ultimo barlume di lucidità che mi rimaneva, riuscii a pensare che la situazione del mio soccorritore, chiunque fosse, non era migliore della mia, era sempre uno contro cinque, perché io non ero in grado di dargli il minimo aiuto.

    Avevo la vista appannata ed i sensi attutiti dal dolore, per di più la luminosità era molto scarsa e riuscivo ad intravedere fuggevolmente qualcosa solo quando le figure in lotta, in quello che mi parve quasi uno strano balletto, si spostavano nel cono luminoso del lampione, ma stranamente i lamenti, i gemiti, le imprecazioni, le grida di dolore che udivo erano sempre di voci giovanili. Il mio soccorritore era un uomo in età, ne ero certo perché uno degli stoneheads l’aveva chiamato “nonno”.

    Ero riuscito ad intravederlo per un attimo: indossava una tuta aderente da lottatore e si muoveva con le movenze di un ballerino e la grazia mortale di una pantera, doveva essere un maestro di una di quelle ati marziali esotiche, karate, kung-fu o qualcosa del genere.

    Presto intorno a lui si era fatto il vuoto, le teste di pietra erano stese doloranti sul selciato o in fuga. Mi aiutò a rialzarmi, o per meglio dire, mi sollevò portandomi sotto il cono di luce del lampione.

    Vidi che aveva un fisico robusto ed asciutto, con i muscoli guizzanti sotto la tuta aderente, come un animale da preda, un poderoso felino che aveva messo fuori combattimento a mani nude cinque stoneheads armati di spranghe, ma il suo volto non era giovanile, era quello di un uomo di almeno quarant’anni.

    Mi tese qualcosa che teneva nella mano.

    “Ragazzo”, disse, “il tuo auricolare è rotto”.

    “Non importa”, riuscii a biascicare con la bocca impastata e piena del sapore del sangue, “E’ rotto da settimane”.

    Mi rivolse un ampio sorriso; non capivo per quale motivo, ma la mia risposta sembrava averlo compiaciuto enormemente.

    Poi gli svenni fra le braccia.



    Ritornai alla coscienza molto lentamente, come un riemergere da acque profonde e scure: Io mio corpo era piagato e dolorante, avevo l’impressione di essere passato attraverso un tritacarne. Allora non ero in grado di rendermene conto, ma dovevo essere sotto l’effetto di sedativi, altrimenti il dolore sarebbe stato intollerabile.

    Con uno sforzo enorme, aprii gli occhi. Mi trovavo in un ambiente in penombra, doveva essere giorno, ma la tapparella della finestra davanti a me era abbassata e lasciava filtrare solo una debole luce fra le stecche. Tutto era silenzioso, grigio, ovattato.

    Ero, a quanto pareva, disteso in un letto, in una stanza forse d’ospedale dove non c’era nessun altro. Cercai di muovere le braccia, le gambe, anche semplicemente di voltare la testa, era inutile, era come voler smuovere dei massi di granito.



    La seconda volta che mi svegliai, non avevo idea se fossero trascorse ore, giorni o settimane, avvertii più che percepire una presenza: c’era qualcuno accanto a me.

    “Nico”, udii il mio nome sussurrato da una dolce voce femminile, “Come ti senti, Nico?”

    Voltai la testa, questa volta ci riuscii anche se con qualche difficoltà, e per un istante pensai davvero di essere morto e di trovarmi in paradiso, che vicino a me ci fosse un angelo, scorsi il volto e la figura di donna più dolci ed aggraziati che avessi mai visto, una giovane donna dai capelli biondi, gli occhi grandi di un azzurro intenso, lo sguardo mite e sereno, intensamente femminile, di una femminilità che non aveva nulla a che spartire con quella di Verouska, di tutte le Verouske che s’illudevano di esaltarla ostentando un trucco pesante che trasformava i loro volti in maschere, ed unghie lunghissime pesantemente laccate di rosso che facevano diventare le loro mani artigli da predatori: una femminilità pulita, semplice, spontanea.

    “Come ti senti, Nico?”, ripeté la donna, ed io non sapevo cosa rispondere, ero totalmente confuso.

    Fisicamente, sentivo dolori in varie parti del mio corpo, soprattutto alla spalla sinistra ed alle costole, ma ero senza dubbio in condizioni molto migliori di quanto sarei stato senza l’intervento del mio misterioso salvatore; senza di esso sarei stato probabilmente sotto qualche palata di terra.

    “Come ti senti, Nico?”, ripeté ancora una volta una voce maschile alle mie spalle.

    L’uomo avanzò nella stanza mettendosi a fianco della donna: era lui, quello che mi aveva salvato dal pestaggio degli stoneheads, vidi che aveva un corpo muscoloso ed asciutto; sotto gli abiti s’intravedeva una muscolatura guizzante, era certamente un lottatore temibile.

    “Bene”, articolai la risposta con fatica, “A pezzi ma bene, mi sto riprendendo”.

    Esitai un attimo, poi feci le domande che mi bruciavano sulle labbra.

    “Ma voi chi siete? Perché mi avete salvato?”

    “Perché tu non lo sai, ma sei dei nostri, Nico. Anzi, mi dispiace che il mio intervento non sia stato abbastanza tempestivo. Ci presentiamo: io sono Lingo e lei è la mia donna, Sybil”.

    Penso che a questo punto dovrei spiegare una cosa; è sorprendente ma stando a quello che ho potuto leggere sui libri, credo proprio che sia vero: una volta la gente parlava davvero le lingue nazionali, quelle che ancora fanno finta di cercare d’insegnare a scuola, anche se spesso sono gli stessi insegnanti che non le sanno parlare; i cosiddetti confini nazionali erano molto importanti, lo slang ameranglo, la lingua che oggi usiamo tutti quanti, non era capito dappertutto, e la maggior parte delle persone, se andava a fare il conto dei propri antenati, trovava che la maggior parte di loro era nata nello stesso posto.

    Noi nella vita di tutti giorni usiamo i nomi in ameranglo, che spesso non sono quelli che compaiono sui nostri documenti. Nico potrebbe essere Nicola, Nicolas, Niklas, Nicolaus, non ricordo esattamente; ma qualcuno usa dei veri e propri pseudonimi che non hanno niente a che fare con il suo nome anagrafico. Questo era probabilmente il caso di Lingo. Tra i libri della sua biblioteca che mi capitò di leggere c’era un vecchio romanzo di fantascienza, La civiltà dei solari di Norman Spinrad, se ricordo bene, dove c’era un personaggio chiamato Dirk Lingo; credo che il mio amico si sia ispirato a quest’ultimo.

    “Dei vostri?”, chiesi.

    Ero più perplesso che persuaso. Non mi risultava di far parte di nessun gruppo, nemmeno degli hobo che mi avevano graziosamente buttato fuori.

    “Non lo puoi sapere”, disse Lingo, “Fra poco tutto ti sarà più chiaro. Per ora ti prego di accettare semplicemente la cosa”.

    Annuii, non avevo alternative, e poi non è che continuare a parlare m’interessasse più che tanto, ero ancora molto indolenzito e mi stancavo facilmente.



    Dormii ancora e mi svegliai di nuovo. I miei nuovi amici erano molto solleciti con me. Sybil aveva una dolcezza straordinaria e mi trattava come un figlio. Mi medicarono e mi nutrirono, e la prima volta che potei mangiare mi accorsi di quanta fame arretrata avessi in corpo. Non so dire quanti giorni passati in una sorta di dormiveglia erano trascorsi da quella prima nostra conversazione, quando…



    Ero sveglio, lucido, avevo l’impressione che fosse mattina, non però molto presto, perché la luce del sole filtrava a fiotti fra le stecche delle tapparelle. Od ero sotto l’effetto degli analgesici, o a buon punto sulla via della guarigione, perché non avvertivo dolori di sorta, stavo bene.

    Buttai da parte le coperte del letto e mi alzai, dapprima un po’ esitante più per la disabitudine che per altro, poi mi misi a camminare per la stanza.

    Chiamai, “Lingo, Sybil!” senza ottenere risposta.

    Ai piedi del letto era stato lasciato un paio di pantofole che infilai ai piedi senza pensarci su.

    Uscii dalla stanza e m’incamminai per la casa. Era chiaro che i miei ospiti non c’erano, non me ne preoccupai, ero certo che sarebbero tornati di lì a poco.

    La casa era grande ma meno di quel che mi ero aspettato, anche se molto meno angusta del cubicolo dove abitavo. Ad un tratto ebbi la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava: c’era silenzio, troppo silenzio a parte i rumori del traffico che giungevano ovattati dal piano stradale diversi piani più in basso. Capite quel che intendo dire? Non avevo l’auricolare, ma voi sapete che anche senza di esso è quasi impossibile trovarsi in un ambiente silenzioso dove non c’è nemmeno un po’ di musica di sottofondo, nemmeno il borbottio di un televisore a basso volume.

    Quasi senza volerlo, mi misi in attesa con l’orecchio teso. Mi parve, se così posso dire, che il silenzio crescesse d’intensità fino a rimbombare. Avvertii un malessere, come una sorta di capogiro.

    Mi trovavo in un salotto e davanti a me c’era una libreria che mi parve zeppa di libri, non mi sembrava di averne mai visti così tanti stipati tutti assieme. Su di una mensola della libreria vidi un apparecchio radio.

    Allungai la mano verso la manopola ma mi fermai a metà del gesto, un’idea improvvisa mi aveva attraversato la mente. Quante volte mi ero lamentato, almeno dentro di me, del fracasso idiota che ci circondava ad ogni momento? Musichette orecchiabili e talvolta così ossessive che spesso non si riusciva a togliersele dalla mente, che ci si ritrovava quasi senza accorgersene a canticchiare ore dopo averle ascoltate, le idiozie dei programmi televisivi e radiofonici, i varietà ed i talk show pieni di tizi e tizie che ciarlavano di cose irrilevanti come se fossero degne della massima serietà e considerazione, che diffondevano buonismo caramelloso e superficiale ottimismo (loro, i conduttori dei media, con i loro stipendi, avevano tutti i motivi di essere entusiasti della vita, gli altri un po’ meno). All’improvviso, ebbi la sensazione che girando quella manopola avrei buttato via qualcosa di prezioso.

    Spostai la mano ed agguantai un libro. Mi ritrovai a leggerlo: era un testo di storia e presto mi accorsi che era più interessante di un romanzo.

    Voi lo sapete che c’è stato un periodo della storia umana, la parte centrale del XX secolo, dal 1914 al 1989, nel quale il mondo è cambiato più di quanto sia avvenuto nell’arco di secoli prima e dopo? Settantacinque anni non sono poi così tanti; l’arco di una vita umana. Un uomo avrebbe potuto attraversarlo con l’arco della sua esistenza, e ritrovarsi verso la fine di essa in un mondo diverso da quello dove era nato come se avesse affrontato un viaggio interplanetario.

    Il silenzio non mi disturbava più, ma ora erano i miei pensieri a riempirlo in modo completamente diverso da come avrebbe potuto farlo un dannato apparecchietto che estraeva bande dello spettro elettromagnetico dall’aria e le trasformava in suoni ed immagini.

    Ero così assorto che non sentii i passi dietro di me, ma solo lo sbattere della porta della stanza.

    Mi voltai, era Lingo.

    Mi salutò con un largo sorriso.

    “Spero che tu non ti risenta a saperlo”, mi disse, “ma ti stavamo osservando. Complimenti, hai superato la prova”.

    Non capivo.

    “Vuoi seguirmi?”, mi chiese.

    Mi fece strada nella stanza adiacente: era un piccolo studio arredato in modo alquanto disadorno, con una scrivania, due poltrone, alcuni scaffali.

    Mi domandò a bruciapelo: “Qual è il tuo cantante preferito?”

    La domanda m’imbarazzò.

    “Beh”, risposi, “Un po’ di questo, un po’ di quello, sa, ci sono cose più o meno simpatiche di diversi autori e diversi generi”.

    “Bene”, replicò, “Dimmi allora qual è il tuo genere preferito”.

    Ci pensai un attimo.

    “Più o meno, vale la stessa risposta di prima”.

    “Mi pare di capire”, commentò, “che per te la musica non è un grande interesse”.

    Mi fissò dritto negli occhi.

    “Sii sincero”, aggiunse, “Fosse per te, potrebbe anche non esistere”.

    Cosa dovevo dire? Era vero, non era altro che la pura e semplice verità, ma era quel genere di verità che non si guadagna nulla ad ammettere, che fa sì che i tuoi amici, od almeno le persone delle quali ricerchi la stima, ti guardino con disprezzo, era il genere di verità che avevo sempre cercato di nascondere, sentendomi un verme od almeno un idiota.

    Eppure il sorriso che Lingo mi aveva rivolto per non aver acceso la radio, e quell’altro che mi aveva indirizzato quando mi aveva salvato e gli avevo confessato di avere l’auricolare rotto da settimane, mi fecero improvvisamente pensare che in quella che avevo sempre vissuto come una menomazione e una vergogna da tenere nascosta, vi fosse qualcosa di positivo.

    “Si”, ammisi, “E’ così”.

    Sulla scrivania era posato un libro con uno di quei formati larghi e piatti, tipo atlante, se avete presente.

    Lingo lo spinse verso di me.

    “T’interessi di arte?”, mi chiese.

    Risposi negativamente.

    Presi il libro e lo sfogliai: era un libro d’arte o, per essere precisi, c’erano le riproduzioni delle opere di diversi artisti: Kandinskij, Mirò, Ricasso, Tanguy, Dalì, Bracque, Klee, Mondrian, De Chirico, Andy Warhol, Basquiat, e le fotografie di alcune sculture: Fontana, Burri. La cosa più simpatica da dire di queste opere, è che erano assurde e insignificanti quando non erano brutte e deprimenti. Scarabocchi, brutture, anche se sapevo che i più quotati critici mostravano di considerarle fra i capolavori espressivi della nostra civiltà.

    “Dimmi quale di queste opere preferisci”, mi chiese Lingo, “quale ti piace di più”.

    Il fatto che egli avesse accolto senza battere ciglio la rivelazione della mia sordità musicale, mi aveva reso audace.

    “Nessuna”, risposi, “fanno tutte schifo, sono una più brutta dell’altra”.

    “Bene, caro Nico”, disse sorridendo, “Certamente ti rendi conto che stai esprimendo delle opinioni molto controcorrente. Chissà quanto ti sei sentito diverso dagli altri, quanto avrai dovuto sforzarti di nascondere questa diversità, e quanto ti sarai sentito solo”.

    Tolse qualcosa da un cassetto, me lo fece vedere: era un modello in gesso o di qualche plastica dura di un cervello umano.

    “Lo sai cos è questo?”, mi chiese.

    “Si”, risposi, “è un cervello”.

    “Bene”, disse, “Certamente sai che il cervello umano è una delle macchine più potenti e più efficienti che esistano in natura, ma noi abbiamo una grande capacità di utilizzarlo male”.

    “Il cervello umano”, proseguì, “ha due emisferi e le funzioni di questi due emisferi non sono esattamente uguali. L’emisfero sinistro è la sede del pensiero logico, razionale, delle attività cognitive, del linguaggio. L’emisfero destro è competente per quanto riguarda le emozioni, la sensibilità estetica e cose di questo genere, ma è muto ed analfabeta, è capace di urlare ma non possiede il linguaggio articolato. Sono le facoltà dell’emisfero sinistro quelle specificamente umane, quelle che fanno la differenza fra un uomo e uno scimpanzé.

    In te, Nico, non c’è assolutamente niente che non vada: nella tua personalità sono predominanti le facoltà dell’emisfero sinistro, per un caso, per una dote naturale, perché la differenza fra gli uomini è insopprimibile. Hai solo avuto la ventura di nascere in una cultura che tende all’eccesso di stimolazione dell’emisfero destro precisamente per impedire alle facoltà dell’emisfero sinistro di svilupparsi adeguatamente.

    Naturale o indotta, la prevalenza dell’emisfero destro crea quella che gli psicologi di un tempo chiamavano la “mentalità reattiva”. L’uomo o il ragazzo reattivi tendono ad essere capaci solo di risposte immediate agli stimoli. Il pensiero logico, la capacità di pensare e progettare a lungo termine, la capacità di analisi, tendono a divenire rudimentali”.

    “Perché?”, chiesi, “Se le facoltà dell’emisfero sinistro sono quelle specificamente umane?”

    “E’ una cosa che ha a che fare con il controllo sociale, con la lotta per il potere. A chi ha il potere, a chi gode di posizioni sociali privilegiate, non conviene che la gente comune sia intelligente, capace di ragionare, consapevole”.

    S’interruppe e mi fissò ponendomi una mano sulla spalla.

    “Ora, Nico, io so che l’istruzione che si dà nelle scuole diventa di giorno in giorno più scadente, ma un ragazzo come te, intelligente e curioso, avrà senz’altro imparato qualcosa. Tu sai che una volta, prima della rivoluzione industriale, la gente era povera ed ignorante, non dava fastidio al potere. Con l’industrialesimo sono iniziate le rivoluzioni. Se te ne rendi conto, non accetti di essere sfruttato né che altri abbiano ingiusti privilegi. Per il potere sarebbe stato più facile tornare semplicemente indietro, ma non si poteva, avrebbe significato rinunciare ai vantaggi della tecnologia. Io non so chi ha avuto l’idea, ma chiunque fosse, doveva essere un genio. Se la gente ha l’impressione di ribellarsi ma in realtà non fa niente per intaccare il sistema, questo non corre alcun rischio, è come un combattimento con mazze di gommapiuma”.

    “Accidenti!”, esclamai, “Vorrei che gli stoneheads avessero usato mazze di gommapiuma con me!”

    Ma mi azzittii subito, il discorso di Lingo era troppo interessante.

    “Si chiama trasgressione”, proseguì, “ed è un cul de sac, una via senza uscita. Gli ingenui si riempiono la pelle di tatuaggi, se la trafiggono di piercing, si dipingono i capelli di verde e di viola, si assordano sparandosi nelle orecchie sterco musicale a tutto volume, si iniettano, inghiottono o fumano porcherie che bruciano il cervello, pensando di essere scandalosi, provocatori, trasgressivi, e fanno esattamente quello che il sistema vuole da loro, sembrano incapaci di capire che qualunque cosa facciano a loro stessi, questo non modifica in nulla il mondo fuori di loro.

    Se si vogliono cambiare le cose, non c’è bisogno di trasgressivi, c’è bisogno di rivoluzionari. Sembra ovvio ma pare che sia difficilissimo da capire, perché l’iperstimolazione dell’emisfero destro ottunde sempre di più le facoltà raziocinanti”.

    “Sono con voi”, dissi, “con tutta l’anima”.

    “Su questo non avevo dubbi”, disse Lingo, “Noi ci chiamiamo “i silenziosi”, siamo cultori del silenzio, non amiamo stordirci di musica ma avere introno a noi il silenzio necessario a riflettere, capire, scandagliare la nostra personalità, ma ora basta, per essere un silenzioso, ho parlato fin troppo!”



    Fissai la macchina con aria perplessa. In tutta sincerità, non era che l’idea di farmi scorrere un laser sulla pelle proprio mi sorridesse.

    “Sono sincero”, mi disse Lingo, “Fa un po’ male, anche se non è nulla di drammatico”.

    “Scusami”, dissi, “ma proprio non capisco. Per quale motivo cancellare i tatuaggi ed i fori dei piercing se poi ci si deve dipingere addosso dei tatuaggi fasulli ed incollare dei finti piercing?”

    “Si, capisco”, rispose Lingo, “ma dobbiamo sempre avere presente che l’appartenenza a questa società e ai suoi valori per noi è solo una finzione. Avere qualcosa di tangibile da nascondere, anche solo il fatto che sulla pelle non hai tatuaggi ma disegni lavabili, aiuta a non dimenticarsene, a non fare sì che la rivoluzione resti un’opzione vaga nella tua mente, mentre esteriormente ti devi conformare al comportamento di tutti quanti per non farti notare”.

    Mi spogliai e mi stesi sul piano della macchina: era metallico e dava una sensazione di freddo. Lentamente, centimetro per centimetro, il cursore del laser a bassa intensità frugò la superficie del mio corpo. Faceva male, beh non proprio male forse; avete presente la sensazione di prurito quando è così intensa che è sul punto di trasformarsi in dolore?

    Il cursore della macchina risalì il mio corpo dalle estremità dei piedi alla sommità della testa. Strinsi i denti, non mi sarei lasciato sfuggire un sospiro a nessun costo. L’operazione dovette durare qualche minuto, non di più, ma a me sembrò che passassero delle ore.

    Mi guardai gli avambracci e mi parve che fossero diventati assurdamente rosei, bisognava guardare con attenzione per distinguere il colore lievemente diverso del tessuto cicatriziale – che presto, mi aveva detto Lingo, sarebbe sparito per essere sostituito da pelle nuova – dove c’erano stati i tatuaggi dal resto della pelle intatta. Mi diede un’impressione strana, come ritrovarsi all’improvviso in una versione più giovanile od infantile del proprio corpo.

    Mi portai la mano al naso e feci scorrere l’indice un po’ sopra la narice: anche il piccolo buco del piercing era scomparso, riempito da tessuto cicatriziale.

    “Due minuti di pausa”, disse Lingo, “Poi riprendiamo”.

    Sospirai. Adesso mi toccava mettermi supino e ricominciare il procedimento per cancellare i tatuaggi sulla schiena.

    Quando terminai ero stordito, avevo la pelle che mi bruciava ma mi sentivo stranamente soddisfatto.



    Non avevo finito, rimasi a casa di Lingo ancora per molti giorni. Il mio recupero era ormai completo, stavo bene, ma non altro, non ero ancora pronto a lasciare la casa, e Lingo me lo spiegò con molta chiarezza.

    “Dobbiamo portarti ad una maggiore efficienza fisica. Devi essere in grado di difenderti, conoscere le tecniche di autodifesa. Viviamo in una società violenta, e tu lo sai bene. Non possiamo permetterci il lusso di perdere nessuno di noi”.

    Mi accompagnò nella palestra dove si allenava quotidianamente: le tecniche di base dell’autodifesa, poi il judo, il kung – fu, il karate, le varie tecniche di lotta orientali ed occidentali di cui aveva una completa padronanza, la stessa che dovevo acquisire io.

    “Non si tratta solo di essere in grado di difendersi”, mi spiegò, “E’ il valore della disciplina in sé, imparare ad essere consapevoli momento per momento di se stessi e del proprio corpo”.

    Facemmo un po’ di riscaldamento e m’insegnò qualche tecnica di base. Stavo per tornarmene a casa con l’intesa di ritornare quotidianamente da Lingo per un programma di allenamento che si sarebbe protratto per tutto il tempo necessario.

    Quando tornai a casa, notai con sorpresa che la mia assenza prolungata aveva destato ben poco interesse. Nessuno dei miei cosiddetti amici sembrava essersene accorto, e nemmeno sul lavoro mi fecero domande, si limitarono a comunicarmi una decurtazione dello stipendio per i giorni di assenza.

    Tornai da Lingo ogni giorno per un lungo periodo: un’ora, un’ora e mezza al giorno; dovevo completare la mia educazione, e non con conversazioni ma con un severo allenamento in palestra. Bisognava immergersi in esso ed in se stessi per capire quanto Lingo avesse ragione: essere padroni di se stessi, di ogni oncia del proprio essere.

    Da allora sono passati molti anni, è venuto il mio turno di trasmettere a mia volta quel che avevo imparato. Ho liberato altre persone che a loro volta ne hanno liberate altre. Il momento si avvicina. Presto saremo la maggioranza, presto potremo gettare la maschera, ed in quel momento saremo pronti, le carte saranno state distribuite a nostro favore, per spazzare via il potere che opprime la società ed inaridisce le intelligenze. La nostra rivoluzione sarà stata fatta. In silenzio.
















     
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