I Sogni che Fanno i Delfini

Adriano Muzzi

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    Adriano Muzzi



    I SOGNI CHE FANNO I DELFINI









    Uno degli ammonimenti che spesso la fantascienza muove alla ricerca è quello di prestare attenzione a non creare mostri da laboratoro, pertanto vengono affrontate delicate questioni di bioetica dal compito di indicare il confine prima del quale la strada della sperimentazione è percorribile e davanti al quale è necessario fermarsi per non finire in territori troppo complessi ed importanti per essere affidati alla discrezionalità umana.

    Ma, guardando la questione da un’altra prospettiva, cos’è il mostro? Qualcosa di diverso da quanto previsto dall’ordine superiore delle cose? E allora l’uomo che discrimina, calpesta gli affetti e umilia cos’è?

    Questi alcuni degli interrogativi sollevati nel presente racconto da Adriano Muzzi, una prova convincente di speculazione fortemente emozionale in grado di colpire e far riflettere.

    Roberto Furlani







    E che cosa amerò se non ciò che non conosco?

    Giorgio de Chirico









    Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni.



    William Shakespeare







    Il sole era un bottone d’argento cucito sul bavero orientale di un cielo sbiancato dall’arsura.

    Tempo da mal di testa, lo avrebbero definito da quelle parti, ma stava per cambiare. Si sarebbero aggrappati, come meglio potevano, alla speranza di quel cambiamento.

    L’inquinamento crescente era riuscito a cambiare il cielo e le persone. Tutto era sbiadito. Gli oggetti e gli esseri viventi avevano perso profondità, come se chi guardasse quel mondo si fosse improvvisamente coperto un occhio con una mano.

    La gente vagava per le strade, mezze liquefatte dal caldo opprimente, apparentemente senza meta. Girovagavano a caso per la città, ubriacati dalla solitudine che li consumava dentro come una legione di tarli in un mobile liberty.

    Nessuno più voleva restare a casa, l’animale sociale insito in ogni uomo reclamava la sua razione quotidiana di contatti fraterni. Ma queste relazioni non si concretizzavano mai. Ormai ognuno viveva nel suo personale guscio, una bolla sospesa in un oceano di paura.

    Le massime aggregazioni fattibili erano di due persone in una stessa abitazione, marito e moglie. In casi rarissimi tre componenti, con l’aggiunta dell’unico figlio consentito dalla legge. Un evento sporadico a causa della radiazione solare e della contaminazione atmosferica: i maschi avevano perso la loro capacità di procreazione. Il governo mondiale non accettava nemmeno la possibilità d’adozioni o di fecondazioni artificiali. Ogni essere vivente in più sarebbe stato un problema per il vecchio globo, già troppo sovraccarico, lanciato verso un processo irreversibile quanto fatale.

    Vassily era uno dei tanti rimasti sterili. Nessuna possibilità per lui d’avere bambini. In nessun modo. I medici non erano riusciti a spiegare perché, ma la realtà superava qualsiasi diagnosi puntuale.

    Sua moglie, Ranya, gli rinfacciava continuamente la sua invalidità. Lo amava molto, ma se fosse potuta tornare indietro avrebbe sposato ‘uno con i testicoli taurini’, come ripeteva sempre alla madre. E Vassily lo sapeva, e soffriva.

    Anche lui desiderava tanto un figlio, e continuava a sperare, come se il solo fatto di desiderarlo potesse guarire la sua malattia silente.

    La mattina si recava al lavoro, presso il laboratorio di Bio-cyber ricerche di Minsk, con quel pensiero nella testa, e ritornava la sera a casa, sempre con quella sentenza ricorrente che rimbalzava nella sua scatola cranica come una mosca chiusa in un barattolo di vetro: ‘io non sono un toro e non lo sarò mai!’.

    Ma lui fantasticava sempre di poter diventare padre, del resto lavorava in un laboratorio che si occupava di sogni. Sì, avevano progettato e costruito una macchina che interpretasse i sogni degli uomini. In un’era dove la realtà era troppo grigia per accettarla senza opportuni filtri distorcenti, l’essere umano cercava consolazione in un dispositivo materializzatore di utopie. Non funzionò mai, anche se, casualmente, si accorsero che sulle menti dei delfini aveva effetto.

    Riuscivano a materializzare le visioni oniriche dei cetacei rinchiusi nella vasca del laboratorio. Se sognavano una palla colorata, nella stanza di incubazione della macchina si formava una palla colorata. Del tutto simile all’oggetto onirico, ma costituito da molecole di tipo particolare. Una specie di fotocopia eseguita su una carta di materiale diverso dall’originale.

    Così le loro stanze erano riempite da quegli oggetti bizzarri: birilli, cerchi toroidali, coralli, conchiglie, pesci di tutte le dimensioni e, a volte, di razze inesistenti, barche e delfini. Delfini che avevano la peculiarità di non poter sognare a loro volta. Di norma venivano immessi in una stanza di annichilazione, creata apposta per disfarsi delle ‘fotocopie’ un po’ troppo ingombranti.

    Le ricerche andarono avanti, grazie ai finanziamenti governativi, con l’obiettivo di riuscire a leggere e riprodurre i sogni umani. Finché non successe quello che non sarebbe mai dovuto accadere.

    Mai.





    Vassily era appoggiato con i gomiti sulla balaustra e guardava i delfini giocare nella piscina. Con il camice bianco che si gonfiava per il vento della sera, sembrava una bandiera sulla prua di una nave. Il cielo era striato di nuvole sottili bianche, come se un pittore impressionista avesse solo iniziato a dare qualche pennellata di bianco perla su una tela turchese.

    Il cetaceo con la macchia bianca sul musetto si chiamava Fred e l’altro, con la pinna caudale graffiata da profondi solchi, Barney. Lo scienziato si trovava bene con Fred; aveva instaurato con lui una specie di dialogo in cui confessava tutte le sue angosce. Spesso pensava che se Fred avesse intuito che stavano violando la sua intimità più profonda, rubandogli i sogni come dei ladri di opere d’arte in una chiesa, probabilmente in uno dei tanti bagni insieme lo avrebbe ucciso.

    Vassily prese un’aringa dal secchio e la porse verso il delfino, che in quel momento lo stava osservando con la testa fuori dal pelo dell’acqua.

    “Ciao bello! Come ti va la vita Fred?”

    Fred rispose con uno dei tre suoni caratteristici di quegli animali, che sembrava una risatina stridente. Poi, con uno scatto di reni, prese il pesciolino al volo.

    “Ah, bene, sono felice per te. Io? Come al solito. Vorrei tanto avere un bambino… ehm, scusa, un cucciolo d’uomo, ma non riesco a farlo, niente da fare. Non ne sono capace.” Gli occhi gli diventarono lucidi.

    Il delfino sembrò capire quello che stava dicendo Vassily: lo guardò per alcuni secondi, poi assunse un espressione più seria, serrando la bocca, e infine annuì con il capo.

    Lo scienziato percepì qualcosa di straniante in quel dialogo senza parole e si ritirò indietro come preso da vertigini. Sentiva che Fred in quel momento aveva provato empatia verso di lui.

    Ma che pensiero cretino, pensò Vassily sorridendo, è vero che questi animali sono molto intelligenti, forse anche più di noi, ma in quanto a capire il nostro linguaggio… certe volte il mio cervello si cortocircuita, il dolore fa pensare delle cose che, in condizioni normali, un uomo razionale giudicherebbe pura fantascienza.

    Prima di ritornare in laboratorio Vassily si rigirò verso la vasca. Il delfino Fred lo stava ancora fissando. Distolse lo sguardo e si incamminò, con le mani nelle tasche, verso il viottolo alberato.

    Il cuore gli pulsava forte. Qualcosa, nel remoto dei suoi pensieri subcoscienti, gli stava parlando.

    “Dai Vassily”, si disse ad alta voce, “è solo che voleva ancora un pesciolino. Per quel motivo ti stava guardando in quel modo. Non essere illogico!”

    La notte, nel suo letto, Vassily sognò il delfino che gli parlava di un futuro bambino. Allontanò quella allucinazione dalla sua mente in dormiveglia così come si scaccia una zanzara fastidiosa. Gli era sembrato tutto troppo reale.





    Il giorno dopo, durante la pausa mattutina, Vassily andò a trovare il suo amico misterioso. Appena lo vide, Fred deliziò il suo visitatore con un salto e una capriola all’indietro, ricadendo nella piscina con un gran tonfo e schizzi d’acqua salata che arrivarono fino al viso dello scienziato.

    Vassily si asciugò la faccia con la manica del camice e fece un cenno di saluto verso la vasca.

    Fred si avvicinò alla sua postazione e iniziò una specie di dialogo con risatine, strilli e pause in alternanza. Sembrava volergli dire qualcosa, ed era molto felice di comunicarglielo, di qualsiasi cosa si trattasse. Pareva un bambino al suo primo volo con l’aquilone: un entusiasmo straripante di gioia.

    “Sì Fred, non ti comprendo, ma sono per te.” Vorrei anch’io avere il tuo stesso stato d’animo, pensò Vassily. Rientrò nel laboratorio con il cuore sollevato dalla serenità del suo amico pinnuto. L’empatia ha i suoi pro e i suoi contro. Questa volta aveva condiviso un evento positivo con un altro essere vivente, e questo era stato molto bello.

    Intanto, nel profondo del suo cuore, una vocina sottile da delfino, gli stava ripetendo una frase solo inizialmente incomprensibile: ‘L’ho sognato per te… L’ho sognato per te… L’ho sognato per te… L’ho sognato per te!’

    Vassily si girò di scatto, ma la stanza in cui lavorava era vuota. Da buon fisico razionalista non accettava il fatto che quel mormorio potesse venire dal suo interno.

    Ma che lo accettasse o no, il processo era stato avviato, e come un’onda anomala lo avrebbe trascinato in un territorio inesplorato e completamente fuori da ogni legalità. Come un surfista sull’oceano, avrebbe cavalcato l’onda cercando di restare a galla il più possibile.

    ‘A volte bisogna bere per non affogare’, ripeté mentalmente il suo inconscio.

    Che cosa significava? si chiese.

    “Che cosa significa?” gridò verso un interlocutore immaginario.







    DUE ANNI DOPO.



    “Ivan, dammi la manina che attraversiamo la strada insieme.”

    Vassily guardò con attenzione nelle due direzioni di marcia, e con passo spedito raggiunse l’altro marciapiede. La sua mano, così come faceva tutte le sere da circa due anni, stringeva la piccola manina di un bambino sculettante per il pannolino troppo voluminoso.

    “Gioco con attalena?”

    Vassily lo guardò teneramente e, dopo avere verificato con la coda dell’occhio che i giochi del parchetto erano liberi, gli rispose: “Sì, andiamo a giocare con l’altalena e lo scivolo. Adesso ci raggiunge anche la mamma. Contento?”

    Ivan, strizzando gli occhi per la troppa luce, abbozzò un sorriso con i denti da latte intermittenti. “Bello! Mamma e tatà fate purupù!”

    Vassily non avrebbe scambiato, con tutti i diamanti del mondo, la sensazione di prendere in braccio il bambino, baciarlo, sentire il suo debole abbraccio attorno al collo. Finalmente sentiva la sua vita piena, colma di un affetto che gli mancava come l’uso della vista a un cieco dalla nascita. Ora ‘vedeva’ la felicità e non gli importava più niente del lavoro e dei suoi dolori personali. E’ incredibile, pensò, come un esserino minuscolo possa modificare a tal punto i propri riferimenti e le priorità instaurate da una vita.





    Ranya li raggiunse quando già erano al terzo giro sull’altalena e al cavallino con la molla.

    “Mamma bella!” Ivan si proruppe in una corsa sfrenata che, con l’aiuto del brecciolino, si trasformò in un ruzzolone a pancia in giù.

    “Fatto male…” disse, guardandosi con compassione i gomiti sbucciati, con un immediato seguito di pianto e lacrime. Una richiesta esplicita di coccole e comprensione.

    Ranya gli deterse le ferite con un fazzoletto bagnato e lo prese in braccio. Ivan assunse una posizione fetale e si iniziò a ciucciare il pollice come se si trattasse di un manicaretto d’alta scuola francese.

    “Vas, domani veniamo a trovarti a lavoro con Ivan” disse Ranya mentre carezzava la testa del bambino con un movimento ritmico di entrambi le mani.

    “No, è meglio di no.”

    “Ma sai bene che lo ha chiesto già tante volte. Ha sentito che lavori con i pesci grandi e vorrebbe tanto vederli.”

    “No, lo porteremo a visitare un acquario. Ti ho già spiegato che è pericoloso farlo venire da me. E’ meglio di no.”

    “Guarda che non mi hai spiegato niente. Quando fai così non ti capisco proprio! Ti faremo una sorpresa…”

    “No! Non c’è niente da capire. Volevi tanto un bambino? Adesso ce l’hai. E’ bellissimo e ci vuole tanto bene. Ti deve bastare.”

    “Sì, ma lui è diverso da noi. Non so se è giusto quello che abbiamo fatto.”

    “Diverso? Come fai a dire una cosa del genere, tu che ci stai sempre insieme! Me lo sarei aspettato da un estraneo, non da te.”

    “Sai bene cosa intendo. Sono contenta per quello che hai fatto, so quanto hai sofferto. Però resta sempre il fatto del come.”

    “Il come è solo un accessorio, che nel nostro caso non ha nessun peso. Devi guardare soltanto i risultati. Devi farlo per il suo bene. Se lo ami veramente, come dici, passerai sopra il come.”

    “Ma…”

    “Nessun ma,” la interruppe Vassily, il suo viso stava prendendo un colore più acceso, “stai ai patti, per una volta mantieni la promessa che mi hai fatto.”

    In effetti sarebbe stata la prima volta.

    Non è possibile guidare una mente umana alla ragione. Troppe connessioni neurali casuali, troppe variabili nel sistema. E poi l’uomo non è felice se non condisce la vita con un pizzico di follia, si annoierebbe troppo.

    Certe rotte, che a un primo sguardo potrebbero sembrare caotiche, devono essere state scritte da qualcuno che non ama giocare a dadi. Nell’antichità gli astronomi osservavano i pianeti del sistema solare che descrivevano insolite orbite pazzoidi. Solo cambiando il sistema di riferimento, si fece chiarezza sulla semplicità ellittica del pensiero cosmico: non più il Sole e gli astri che ruotavano intorno alla Terra, ma tutto che girava attorno alla nostra stella.





    Da un articolo del gazzettino locale ‘La voce di Minsk’:



    ‘Ritrovato l’oggetto onirico fuggito tre anni fa dal laboratorio di Bio-cyber, reparto Ricerche sui Sogni. L’oggetto, come nelle migliori tradizioni dei romanzi gialli, è tornato sulla ‘scena del delitto’ ed è stato immediatamente riconosciuto e catturato. Successivamente, come da procedura, è stato portato nella stanza di annichilazione.

    Così termina un caso che aveva fatto discutere per mesi e mesi i media nazionali, e che aveva fatto arrovellare le migliori menti delle forze di polizia, senza mai trovare il bandolo della matassa.

    Nel laboratorio si continua a sperimentare per arrivare, un giorno che si spera prossimo, alla decodifica e alla relativa materializzazione dei sogni umani.’





    DIVERSO?

    Vassily, seduto su una banchina del fiume che divideva in due la città, si teneva forte la testa tra le mani. Gli sembrava che pesasse tonnellate, una palla di cannone posata su un fragile collo umano fatto di carne.

    “Diverso?” urlò al vento. Nessuna risposta, nessun eco.

    Diverso? Si ripeté mentalmente, quella che doveva essere la millesima volta.

    Osservò l’acqua dove si formavano dei mulinelli, forse a causa di pietre sporgenti sotto il letto del fiume. E’ come le nostre vite, pensò, veniamo risucchiati in vortici di caos, attrattori di disordine, senza sapere perché, senza poter vedere la pietra che li ha generati.

    Si alzò e mise per metà i piedi fuori dal ciglio in sospensione sull’acqua. Rimase in un dondolio ipnotico per qualche minuto.

    ‘Sì, lo devo fare. A questo punto della mia vita in cui tutto è andato in fumo, devo trovare il coraggio per porre fine a questa storia…’

    Così dicendo si girò su se stesso e riprese la rampa di ciottoli verso la strada del ponte.

    ‘Lo devo fare! Mi consegnerò agli umani.’

    Il tramonto colmava il paesaggio, ma non la sua anima vuota.





    Da un articolo del gazzettino locale ‘La voce di Minsk’:



    ‘Le autorità governative, in un bollettino congiunto con il laboratorio di Ricerche sui Sogni, affermano d’aver trovato un secondo manufatto fuggito precedentemente dal centro Bio-cyber. Solo ieri è stato preso quello che da ben tre anni vagava indisturbato per la nostra città.

    Si procederà, il più presto possibile, all’eliminazione dell’oggetto.’





    “Dai, Vassily, stai tranquillo. Seguimi con calma e non soffrirai per niente” disse lo scienziato con il camice e l’arma d’acciaio in pugno. Il camice bianco era di un candore celestiale. Vassily era affascinato da quella lucentezza, così come un toro lo è dal fulgore della muleta scarlatta e ignora il lampo della lama nella mano del matador.

    “Ma Alexander, fino a ieri eravamo colleghi, abbiamo fatto delle ricerche insieme, non ti ricordi? Come puoi farmi questo?”

    “Non complicare le cose, sai benissimo perché. Lo puoi capire molto bene anche nelle tue condizioni” fece una pausa per aprire la porta della ‘stanza’.

    “Ora entra qua dentro e cerca di non pensare. Non devi aver paura, non sentirai niente.”

    Vassily entrò a testa china, non aveva altra scelta, la sua fine era stata già scritta prima che nascesse. La cosa che però lo feriva di più era il comportamento del suo collega. Lo stava trattando come una cosa, un diverso.

    ‘Diverso?’ si ripeté mentalmente Vassily.

    “Io penso, amo, sogno. In che cosa sono diverso da voi?” disse ad alta voce, ma l’amico non poteva sentirlo, la porta a tenuta stagna si era già chiusa. Sigillata. Lui continuò lo stesso: “Perché mi condannate? La mia colpa è forse quella di aver osato sperare in una vita come la vostra? La mia colpa è stata forse quella di essere un sogno che aveva sognato un altro sogno?”

    Lacrime, non esattamente uguali a quelle umane, pensò Vassily, scesero sulle sue guance.

    “Non ho forse amato mia moglie e mio figlio con tutta la forza possibile? In che cosa ho sbagliato?

    “Avete forse invidia della mia immortalità?

    “Dovreste, per una volta almeno, provare voi stessi questo stato di paura perenne. Questo senso di preda in fuga da orde di cacciatori affamati. Solo una volta…”

    Il suo ultimo pensiero volò verso il suo amico e creatore: Fred. Lo immaginò felice e giocoso nella piscina, con la sua risatina irriverente.

    Una forte luce. Bianco.

    BIANCO.

    Poi più nulla.





    “Ciao Fred!” disse Ranya rivolta al cetaceo impegnato in veloci evoluzioni tra i galleggianti.

    Il delfino si fermò di botto, come una macchina che inchioda prima di investire un gatto, e fissò la donna.

    “Sai chi sono, vero Fred?”

    Il delfino non si mosse.

    “Ti volevo solo dire che ho seppellito le sue cose dietro il giardino di casa, in suo ricordo. Io gli ho voluto molto bene, Fred. Grazie per avermi dato questa opportunità. Per me è stato un sogno nella migliore accezione del termine. Senza le tue fantasie, sarei rimasta sempre da sola e non avrei conosciuto l’amore. Questo mondo non me lo avrebbe permesso. Non avrei mai avuto un marito e addirittura un figlio. Grazie.”

    Il delfino continuò a restare immobile, ma i suoi occhi sembravano penetrare lo spazio tra di loro come raggi laser balenanti nel buio del cosmo.

    Ranya si voltò e, con le lacrime che le rigavano il volto, tornò verso il parcheggio riservato ai visitatori.

    Nel profondo del suo cuore, una vocina sottile, gli stava ripetendo una frase solo inizialmente incomprensibile: ‘L’ho sognato per te… L’ho sognato per te… L’ho sognato per te… L’ho sognato per te!’

    Pausa. Silenzio. Orecchie che fischiano. Si sente il mare…

    Ranya, disorientata, si voltò e scorse un gruppo di persone che parlottavano. Si dette della stupida e continuò verso la macchina.

    Ancora: ‘Lo sognerò per te… Lo sognerò per te… Lo sognerò per te… Lo sognerò, ancora, per te!’

    Ranya abbozzò un sorriso, non sapeva perché. Era come quando, con la pioggia, esce anche il sole. Una cosa strana, conflittuale.

    Improvvisamente si sentiva serena come se a casa ci fosse ancora suo marito e suo figlio ad aspettarla.

    Un sogno a occhi aperti.

    Ma forse, pensò mentre guidava, la nostra vita non è solo un sogno fatto da qualcun altro?

    Forse non siamo altro che un miraggio della nostra persona amata?





    Attraversò il vialetto del giardino in un attimo. Cercò frettolosamente le chiavi e, con impazienza, le infilò nella toppa, girandole e spingendo quasi contemporaneamente.

    Sentì sui polpastrelli il ruvido del legno, non ci aveva mai fatto caso prima. Ci sono dei gesti che si ripetono immutati per tutta la vita, senza averne coscienza, finché… finché qualcosa non cambia drasticamente e ci fa vedere le cose da un’altra angolazione. Ora poteva percepire anche le singole scaglie di legno e la loro temperatura tiepida, il sole era appena tramontato bagnando con un ultimo raggio il suo uscio.

    Spalancò la porta e attese nel buio. Odore buono di casa, odore di Vassily e Ivan.

    Forse era solo una mera speranza, o forse un sogno.

    Ma, anche se fosse, che differenza c’era?

    Diverso?

    Affatto.





    ‘Secondo la leggenda,

    una notte Chuang Tzu sognò di essere una

    farfalla

    e di poter volare in estasi tra i fiori.

    Svegliatosi di soprassalto,

    fu colto da un dubbio,

    infatti, Chuang Tzu non riusciva a capire quale fosse il suo vero essere:

    era un uomo che aveva sognato di essere una farfalla

    o una farfalla che in quel momento sognava di essere un uomo?’




     
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