Entropia

Fabio Calabrese

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    Fabio Calabrese



    ENTROPIA





    Da un punto di vista narrativo il 2003 di Fabio Calabrese è stato un anno straordinario, caratterizzato da ben quattro racconti di fantascienza, tutti di buon livello. Del lotto due sono di ottima fattura ed è con piacere che vi comunico che entrambi verranno pubblicati su Continuum. Il primo è il presente “Entropia”, che in uno scenario cyberpunk sviluppa una storia ricca di atmosfera, dove l’aspetto scientifico e quello sociologico si coniugano senza far venir meno il risvolto umano. Ma nonostante l’atmosfera, questo racconto ha un che di asimoviano: con le dovute proporzioni, “Entropia” ha in analogia con la Fondazione l’utilizzo della scienza per dimostrare un fenomeno sociale. Se Asimov si avvaleva della matematica come strumento per comprendere il futuro della Galassia (e quindi il crollo dell'Impero ecc.), Calabrese ha invece usufruito della fisica come strumento per comprendere la disgregazione della società post-consumistica.

    Una società descritta attraverso mode e tendenze credibili, in un intreccio valido che termina con un finale a sorpresa di sicura efficacia.

    Roberto Furlani









    “Si avvicini lentamente, tenendo le mani ben alzate”.

    La guardia, il militare, il miliziano o che altro fosse, di uno dei tanti eserciti privati che difendevano le proprietà di chiunque avesse sufficiente denaro per ingaggiarli, aveva puntato il mitra addosso al professor Evans. L’aspetto mite, da uomo di studio, dello scienziato, non sembrava produrre sul vigilante alcun effetto particolare.

    Dietro le guardie, i sacchi di sabbia, i cavalli di frisia di filo spinato, i nidi di mitragliatrici, l’accesso al palazzo era contraddistinto da una porticina metallica sicuramente blindata, Evans era pronto a scommettere che era in grado di resistere ad un colpo di artiglieria di medio calibro.

    Pensò con un profondo senso di rimpianto, che quando era giovane lui, non si proteggevano a quel modo nemmeno le banche.

    Evans s’incamminò lentamente verso l’uomo armato e la canna del fucile tenuta minacciosa all’altezza del suo petto.

    “Sally”, pensò all’improvviso, “Dio mio, Sally”.

    Fu solo un soprassalto d’orgoglio a trattenerlo, ad impedirgli di scoppiare in lacrime là davanti a quell’anonimo vigilante che sembrava in grado di esprimere la stessa empatia e la stessa partecipazione umana di un palo delle linee elettriche.

    Si avvicinò e l’agente lo perquisì facendolo mettere faccia al muro con le braccia sollevate, gli tolse dalle mani la cartelletta in cartoncino e gliela restituì dopo una rapida scorsa ai fogli che conteneva. Un’altra precauzione esagerata? Evans aveva sentito che l’esplosivo al plastico poteva essere lavorato in lamine sottili in grado di trovare agevolmente posto dentro un portadocumenti. Si, questo era vero, lo sapeva, ma gli sembrava poco plausibile che qualcuno ce la potesse avere con una stazione televisiva al punto da mettere in atto un attentato così raffinato.

    “Si accomodi!”, disse secco il vigilante restituendogli la cartella.

    Il professor Henry Evans percorse un corridoio vigilato ad intervalli regolari da altre guardie armate e fu fatto accomodare in uno studio, una stanza il cui arredamento consisteva di una serie di poltrone e divani in finta pelle. C’erano già cinque o sei ospiti in attesa, uomini fra cui spiccava un tizio dalla camicia sgargiante che doveva essere un ospite di grido del talk show, ed alcune donne che avevano l’aria di aver passato diverse ore nelle mani di parrucchieri e truccatori, che indossavano come di prammatica top dalla scollatura generosa e minigonne molto corte che, come prescriveva la moda del momento, dovevano consentire una fuggevole visione delle mutandine quando da sedute cambiavano posizione.

    Di nuovo, il pensiero di Sally lo colse come una pugnalata.

    Entrando, Evans rivolse un rapido cenno di saluto ai presenti, che risposero in maniera altrettanto breve e sfuggente.

    In un’epoca nella quale la maggior parte delle comunicazioni avveniva attraverso i mezzi informatici, attaccare discorso con degli estranei era considerato il massimo della maleducazione.

    Si sedette in attesa dell’inizio della trasmissione.

    Non avrebbe voluto essere lì, non sarebbe dovuto essere lì, non era giusto. Poche ore prima avevano telefonato dall’ospedale e gli avevano detto di Sally. Se avesse potuto seguire il suo istinto, si sarebbe precipitato da lei, ma lei ormai poteva attendere per l’eternità, mentre il denaro della sua partecipazione alla trasmissione della NNC gli serviva per sopravvivere, e non sapeva quando l’occasione si sarebbe ripresentata. A malincuore aveva deciso che si sarebbe recato a dare l’ultimo saluto al corpo di sua moglie l’indomani.

    Era strano che in un’epoca nella quale la medicina aveva fatto e stava facendo tanti progressi, la preparazione individuale dei singoli medici lasciasse sempre più a desiderare. La leucemia non era più da tempo nella maggior parte dei casi una condanna inesorabile, tutto stava nel trovare per tempo un donatore compatibile di midollo osseo.

    Quei signori si erano sbagliati con le analisi, analisi che sarebbero dovute essere di routine, il “donatore compatibile” non era tale, e Sally era stata sottoposta ad un intervento inutile che l’aveva ulteriormente debilitata; tuttavia sembrava essersi ripresa sufficientemente bene da attendersi un nuovo donatore ed un nuovo intervento. Quella mattina, come tutte le mattine da molti mesi in qua, Henry Evans l’aveva trascorsa all’ospedale con Sally. Quando l’aveva lasciata per rientrare a casa all’ora di pranzo, tutto sembrava tranquillo, la crisi era intervenuta nel pomeriggio. Al telefono erano stati vaghi: arresto cardio – circolatorio, una formula che andava bene per tutto e per nulla.

    Sapeva che avrebbe dovuto fare causa all’ospedale, lo doveva a Sally anche se contro medici e ospedali era difficile spuntarla, ma ora non aveva voglia di pensarci, riusciva solo a pensare all’immenso vuoto che l’attendeva nella casa silenziosa.

    Gli pareva di avere in bocca come un sapore di cenere amara: cenere, cenere, i residui di una vita fatta di potenzialità sprecate, un anticipo di quel nulla dove si augurava avrebbe presto raggiunto Sally.

    Aveva studiato e lavorato duramente per laurearsi, entrare all’università come assistente e poi per conseguire la cattedra. Da qualche anno era diventato un docente, lui e Sally avevano cominciato a stare bene, quando era arrivata la “riduzione” del 2058 che aveva soppresso il 90% degli atenei esistenti nel territorio degli Stati Uniti.

    Henry Evans era rimasto senza lavoro; da allora aveva racimolato un po’ di denaro lavorando per le riviste, poi negli ultimi tempi soprattutto per i talk show televisivi: mentre le emittenti TV si moltiplicavano come funghi, le riviste sparivano, e non solo quelle scientifiche, la lettura era quasi sul punto di diventare un’arte dimenticata.

    Henry Evans e gli altri ospiti furono invitati a recarsi nel vicino studio di registrazione, furono fatti accomodare intorno ad un tavolo di forma semicircolare, una sorta di mini teatro con le telecamere piazzate in luogo della cavea del pubblico, piuttosto consueto per quel genere di dibattiti.

    In realtà era, e questo Henry Evans lo sapeva bene, solo un ingrediente nel gran minestrone d’intrattenimento composto perlopiù di spettacoli leggeri, film e programmi musicali o sportivi, che le emittenti televisive riversavano quotidianamente sul pubblico.

    Il conduttore, un tipo azzimato che pareva lustrato con il sidol, presentò gli ospiti: il tizio con la camicia dai colori sgargianti era un membro del consiglio comunale, un giovane politico in carriera più o meno rampante; le donne erano un’astrologa e un paio di attrici che dovevano essere state scelte più per la loro presenza fisica che per quello che avessero da dire: anche questo faceva parte del copione, e tutto sommato si risolveva in un imbroglio a cui anche ad Evans toccava tenere mano: si potevano presentare al pubblico le riflessioni più profonde sulla condizione umana e sul destino ultimo della civiltà, ma se la cosa era presentata nella cornice di dieci minuti d’intrattenimento, fra uno spettacolino e l’altro occhieggiando le gambe delle girl, non analizzata, non assimilata, non capita, era meno di nulla, era una truffa che dava agli spettatori la falsa impressione di aver imparato qualcosa.

    Si accese la scritta luminosa con la dicitura: “On air”.

    “Signore e signori”, esordì il conduttore, “Il tema di oggi è: riusciremo a superare la crisi che stiamo attraversando? Ottimisti e pessimisti a confronto. Il primo ad intervenire sarà il professor Henry Evans, noto sociologo, che al riguardo ci presenterà una sua interessante teoria”.

    Evans lo sapeva, toccava sempre a lui aprire le danze, che poi non erano danze ma combattimenti corpo a corpo: far notare per l’ennesima volta gli scricchiolii evidenti di un sistema sociale che stava andando a pezzi, fare la figura del cattivo e, in una farsa liberatoria, essere sconfitto da cinque o sei ottimisti a tutti i costi che non sapevano nemmeno di cosa stessero parlando.

    “Beh”, esordì, “Tanto per cominciare, vorrei richiamare un concetto familiare agli scienziati, ma non so fino a che punto noto al grosso pubblico, il concetto di entropia: esso significa in poche parole che l’energia e l’informazione immesse in un sistema tendono spontaneamente a diminuire, non ad aumentare. Io posso trasformare dell’energia cinetica in energia termica, ad esempio sfregando dei bastoncini fino a produrre una scintilla che accende un fuoco, e l’energia termica di nuovo in energia cinetica, ad esempio usando il fuoco per far bollire l’acqua in una caldaia e produrre del vapore capace di far alzare un pistone, ma l’energia che ricaverò alla fine sarà considerevolmente minore di quella che vi avevo investito inizialmente.

    Per quanto riguarda l’informazione, la perdita avviene allo stesso modo: un esempio che è familiare a tutti: se faccio la fotocopia di una fotocopia di una fotocopia e così via, il documento di partenza diventa presto illeggibile”.

    Si concesse una breve pausa e fissò prima i suoi interlocutori, poi l’occhio inespressivo della telecamera dietro il quale c’era il pubblico che assisteva, forse attento, forse distratto, a casa propria. Si augurò di essere stato sufficientemente chiaro.

    “Ora cerchiamo di tenere a mente questi concetti”, proseguì, “e di applicarli alla nostra situazione. Noi stiamo consumando a velocità sempre crescente risorse di un sistema limitato, il nostro pianeta, che non potranno essere rimpiazzate con lo stesso ritmo con il quale le consumiamo, ed è un ritmo che non potrà essere sostenuto ancora a lungo. Nei Paesi extraoccidentali, nel “sud del mondo” tale aumento è dovuto alla crescita della popolazione; da noi invece, anche se le popolazioni occidentali sono numericamente stabili, alla crescita dei consumi individuali. Quello che è peggio, è che stiamo dilapidando risorse non rinnovabili che non potranno in alcun modo essere rimpiazzate, come i combustibili fossili. In queste condizioni, possiamo aspettarci un collasso a scadenza non lunghissima, un collasso che possiamo rimandare ancora un po’ con qualche progresso tecnologico, ma che non possiamo scongiurare”.

    Henry Evans emise un sospiro. Il tempo del suo intervento era finito, sperò solo di essere stato sufficientemente chiaro. Con un piccolo istrionismo, il contenuto della cartelletta che continuava a tenere fra le mani e che aveva poggiato davanti a sé sul tavolo, preferiva lasciarlo da parte per la replica.

    La telecamera inquadrò l’uomo dalla camicia sgargiante.

    “Caro professore”, disse questi, “Onestamente, da lei mi aspettavo di sentire qualcosa di più nuovo. Sono settant’anni che voi ecologisti recitate la stessa geremiade e cercate di terrorizzarci con questa storia del crollo imminente che finora non c’è stato. Oggi il problema è soprattutto politico. Noi abbiamo riportato la democrazia in Siria, in Iran, in Arabia Saudita abbattendo le tirannidi che governavano quei Paesi. Quando gli ultimi fedelissimi di quei passati regimi saranno messi in condizioni di non nuocere e cesseranno gli attentati contro le nostre truppe di occupazione, la produzione petrolifera potrà riprendere in pieno, e cesseranno le attuali restrizioni al consumo dei carburanti.

    Poi, statistiche alla mano, oggi siamo molto meno dipendenti dal petrolio di venti o trenta anni fa; grazie a Dio, le resistenze psicologiche all'utilizzo dell’energia nucleare, che è la sola vera fonte alternativa ai combustibili fossili, stanno sempre più diminuendo, man mano che le nuove centrali entrano in esercizio e la gente si rende conto che sono assolutamente sicure.

    Infine, non è vero che i consumi individuali sono cresciuti. Ho qui con me le statistiche degli ultimi quindici anni: c’è stata una forte diminuzione soprattutto nel consumo di energia per i trasporti.

    Grazie all’informatica si va diffondendo sempre di più il lavoro da casa, con una netta diminuzione degli spostamenti quotidiani, ed anche le vacanze virtuali, gli incontro virtuali con amici, l’assistere a spettacoli virtuali standosene comodamente a casa propria. Un tempo eravamo una nazione su ruote, oggi siamo una nazione in rete, e creda che ci abbiamo guadagnato. Io stesso quest’estate ho fatto una splendida vacanza virtuale nella Siberia di 10.000 anni fa a caccia di mammut, dovrebbe provare anche lei. E poi, ovviamente, c’è meno inquinamento”.

    La luce davanti al professor Evans tornò ad accendersi.

    “Caro signore”, disse, “Mi pare che lei faccia lo sbaglio che commettono quasi tutti, quello di interpretare il concetto di entropia in senso esclusivamente energetico. L’entropia è un concetto complesso che riguarda prima di tutto l’informazione o la complessità strutturale. L’entropia energetica è una perdita di complessità come ogni altra forma di entropia.

    Le faccio un esempio: lei pensi all’energia cinetica di un proiettile, è un’energia altamente ordinata perché gli atomi e le molecole che lo compongono si muovono tutti a grande velocità in una direzione precisa; quando l’attrito avrà convertito l’energia cinetica del proiettile in energia termica, essa non si sarà annullata ma si sarà degradata convertendosi in moti disordinati delle molecole dell’aria e dei materiali circostanti.

    Occorre tenere presente che informazione e complessità sono la stessa cosa: noi chiamiamo informazione la complessità codificata e complessità l’informazione decodificata. In un essere vivente, ad esempio, la complessità/informazione si presenta codificata nel DNA, nel patrimonio genetico, e decodificata nelle proteine e nelle strutture - appunto – complesse che esse formano, sono due facce della stessa medaglia: ci vuole il DNA umano per fare un uomo, con un patrimonio genetico più rudimentale, potremmo avere un verme o un batterio.

    Gli esempi di perdita di informazione/complessità con cui dobbiamo confrontarci sono innumerevoli: dal degrado costante del nostro livello d’istruzione, alla perdita di complessità dei sistemi naturali, di diversità biologica, conseguente all’estinzione delle specie selvatiche”.

    “E anche”, avrebbe avuto voglia di aggiungere, “la perdita di complessità a livello cellulare connessa alla diffusione dei cancri e delle leucemie che stanno proliferando dappertutto grazie alle vostre bellissime centrali nucleari che non sono poi così sicure come dite”.

    Avrebbe avuto voglia di urlarlo, era una cosa che faceva troppo male, ma si trattenne, sapeva che era pericoloso buttarla sul personale, c’era il rischio molto concreto di non essere più chiamato a lavorare da nessuna emittente televisiva.

    “Il problema è”, proseguì, “che la complessità non può procedere oltre un certo limite, superato il quale scatta la degradazione entropica, e in termini molto rapidi. Vorrei farvi vedere un esempio, per essere chiaro”.

    Aprì la cartelletta che aveva posato sul tavolo e ne estrasse il contenuto: erano dei fogli di cartoncino Bristol della classica dimensione A4. Ad un cenno di Evans la telecamera zumò su di essi, mostrandoli in primo piano. Il primo, che Evans reggeva in mano, mostrava una superficie grigia uniforme.

    “Ecco, vedete”, disse, “Non c’è struttura e non c’è informazione: i pigmenti chiari e i pigmenti scuri sono distribuiti secondo una disposizione casuale, che per la legge dei grandi numeri significa una disposizione uniforme”.

    Posò il primo cartoncino e mise davanti all’obiettivo della telecamera il secondo; questo era diviso in due bande verticali, una bianca e una nera.

    “Ecco, vedete?”, disse, “Ora abbiamo introdotto una struttura molto semplice: i pigmenti scuri sono nella banda di destra, i pigmenti chiari in quella di sinistra. Ovviamente, possiamo fare di più”.

    Il terzo cartoncino era diviso in quattro caselle, bianche e nere, alternate a scacchiera.

    “E ancora di più di questo”.

    Il cartoncino successivo ne aveva nove di caselle, tre per lato; il quinto sedici, il sesto venticinque, seguivano quelli di trentasei, quarantanove, sessantaquattro, ottantuno, cento, centoventuno caselle.

    Oltre le cento caselle, Evans lo sapeva, a meno di non esaminare i fogli molto da vicino, la quadrettatura diventava un’indistinta “grana” del foglio, e il cartoncino successivo, quello di 144 caselle, dodici per lato, doveva apparire agli spettatori un’indistinta superficie grigia.

    “Avete osservato bene?”, chiese Evans, “Oltre un certo grado di complessità la struttura collassa, ma non è ancora tutto”.

    Fece ripassare per le mani gli ultimi cartoncini.

    “Guardate bene!”, disse, “Mentre la struttura impiega un certo tempo ad aumentare di complessità, la sua dissoluzione è molto rapida. Applicato alla nostra civiltà, questo significa che essa, che ha impiegato secoli per arrivare al punto in cui siamo ora, potrebbe dissolversi in tempi molto rapidi, qualche decennio, forse addirittura pochi anni”.

    Prese un attimo fiato, una pausa calcolata per dare agli spettatori tempo di riflettere sulle sue parole.

    “Io non dico”, proseguì, “che questo sia un destino inevitabile. Forse siamo ancora in tempo, ma di tempo ne abbiamo poco. Dobbiamo invertire la filosofia che abbiamo sempre seguito finora, di uno sviluppo verso una complessità sempre maggiore; dobbiamo puntare ad un decentramento della produzione industriale secondo il vecchio, mai smentito, motto del "piccolo è bello", ad un decentramento della popolazione verso piccole comunità dai nostri agglomerati urbani sempre più invivibili, dobbiamo deciderci finalmente ad imboccare la strada delle energie rinnovabili”.

    Il conduttore gli fece un gesto che gli parve spazientito; il suo tempo era scaduto.

    La telecamera inquadrò il suo antagonista, il politico, l’uomo dalla camicia sgargiante.

    Questi, durante il suo precedente intervento aveva tenuto incollato sulla faccia un sorriso da anchorman dello spettacolo, d’altra parte, la distinzione fra politici ed attori era divenuta sempre più esigua.

    Ira il sorriso dell’uomo parve ad Evans divenuto un ghigno cattivo, da lupo che ha fiutato il sangue della preda. Emise una risatina di gola, breve e secca.

    “Questo è il più miserabile gioco delle tre carte a cui abbia mai assistito”, commentò, “Lei pretende di spiegare il destino della nostra civiltà, di tutti noi, di tutto quello che ci vediamo intorno con dei pezzi di cartoncino Bristol? La verità è che siamo sempre andati avanti, abbiamo sempre progredito, ci siamo sempre sviluppati nonostante tutti i profeti di sventura come lei, e continueremo a farlo”.

    Henry Evans sapeva non avere più diritto di replica, ma dopotutto non gliene importava: non era pagato per avere ragione, era pagato per parlare ai sordi, per riempire dieci minuti di tempo in un talk show televisivo che non era destinato a cambiare la vita di nessuno.

    Dopo il politico, toccava all’astrologa, una tipa bionda dalla voce flautata e le movenze flessuose, che dava l’idea di aver intrapreso la carriera di sensitiva al termine di quella di attrice dei film porno. Le stelle, a quanto pareva, erano decisamente favorevoli, avevano programmi in rosa per gli Stati Uniti d’America!

    Le altre ospiti dovevano essere lì soprattutto per tappezzeria: espressero la loro opinione sul futuro del Paese a base di Fede nei Più Alti Principi condita con interiezioni e anacoluti, decisamente, una seria competenza non era richiesta in quel genere di programmi. Henry Evans smise presto di ascoltare, trovava la stupidità noiosa.

    Smise di udire il mare di chiacchiere banali e mielose che volevano convincere gli spettatori a quell’ottimismo sciocco che, a dispetto di ogni frangente, “le cose andranno grosso modo come sono sempre andate”, solo che non esiste un modo in cui le cose sono sempre andate.

    L’unica cosa che gli interessava, a questo punto, era arrivare alla fine del tempo previsto ed andare a ritirare il suo assegno.

    Quasi non rispose ai cenni cordiali che gli altri, compreso il politico dalla camicia sgargiante, gli rivolsero uscendo, gli diedero una sensazione amara: per loro le divergenze che erano emerse erano solo “una parte in commedia”, e sarebbero stati pronti a sostenere opinioni diametralmente opposte se il copione l’avesse richiesto. Forse era la frivolezza del mondo dello spettacolo dove più si scavava, più non si trovava nessuna sostanza dietro l’apparenza, o forse semplicemente era lui che apparteneva ad un’altra generazione.

    Un vigilante armato lo scortò fino al più vicino ingresso della metropolitana. Qui, come da contratto, la responsabilità della NNC finiva.

    Dentro la metropolitana, le gallerie illuminate e la vicinanza di altri viaggiatori nei convogli od in attesa alle stazioni offrivano una relativa sicurezza.

    Henry Evans aveva a casa una cineteca discretamente fornita, dove c’erano anche copie di alcuni film risalenti all’inizio del secolo od addirittura al secolo XX: la cinematografia, soprattutto quella d’epoca, era stata una delle sue rare passioni. A quei tempi, negli anni del trapasso del secolo e del millennio, New York era chiamata “La Grande Mela”, e l’impressione che dava era proprio quella di un gigantesco frutto che si offriva ad innumerevoli bocche, animata da una vita frenetica che non s’interrompeva né di giorno né di notte. Il panorama notturno era quello di una città illuminata da innumerevoli e vastissime insegne luminose che non lasciavano un angolo buio, e con il martellio ottico della loro intermittenza sembravano suggerire un ritmo ancor più frenetico di quello del giorno.

    Le pellicole di fantascienza, poi, illustravano in maniera molto chiara la convinzione che tutto ciò si sarebbe soltanto incrementato con l’andare del tempo: pellicole come Blade Runner o Strange Days, per citarne due che Evans aveva a casa, mostravano un intrecciarsi spasmodico di milioni di vite e migliaia di culture nelle cosmopolite e caotiche megalopoli del tempo a venire: amori, odi, interessi, affari, denaro e crimini che s’intersecavano a ciclo continuo, e forse ad un ritmo ancor più convulso nelle notti sfavillanti.

    Si erano sbagliati, il fattore di cui non avevano tenuto conto era l’informatica: collegati alla rete si poteva vivere in modo virtuale ogni genere di esperienze, compreso il sesso e l’equivalente cibernetico di uno sballo. Che senso aveva scendere per strada a correre rischi inutili? La Grande Mela, ma non solo lei, si era a poco a poco trasformata in un enorme favo popolato di crisalidi ciascuna racchiusa nel proprio bozzolo, “La Grande Mela Marcia” la chiamavano ora, ed i più cinici ed espliciti “La Grande Tomba”.

    Una dopo l’altra le insegne sfavillanti si erano spente, che senso aveva tenerle accese se non c’erano più potenziali clienti da attrarre? Le notti erano tornate ad essere un buio deserto mortalmente pericoloso: il regno di ladri, gang giovanili, prostitute per quelli che continuavano a preferire la carne al sesso virtuale, spacciatori per quelli che si ostinavano a preferire le droghe chimiche all’estasi elettronica.

    Henry Evans scese la rampa delle scale fino alla piattaforma dove si trovava un gruppo di viaggiatori in attesa del convoglio successivo, stare in gruppo era l’unica cosa che offriva una qualche sicurezza.

    Dopo una decina di minuti il convoglio arrivò sferragliando.

    Henry Evans prese posto su di un sedile in silenzio. Quando erano entrate in servizio qualche anno prima le nuove carrozze, l’amministrazione comunale ne aveva vantato la silenziosità; evidentemente con l’uso si erano deteriorate. Sempre la maledizione della complessità, quanto più un sistema è complesso, tanto più è soggetto a logoramenti e guasti. Un uomo è notevolmente più complesso di un albero. Risultato? Un albero può vivere centinaia di anni, un uomo raramente passa i 70 – 80, e l’uomo è ancora un animale considerevolmente longevo.

    Il guaio, rifletté, è che la gente si abitua ad accettare come “normali” le condizioni di vita più innaturali. Tempo prima aveva letto di un piccolo esperimento che era stato fatto con una rana: se si prendeva l’anfibio e lo si metteva nell’acqua calda, la bestiola schizzava via, la se lo si metteva in una pentola di acqua tiepida e si aveva l’accortezza di alzare la temperatura con sufficiente gradualità, l’animaletto se ne stava tranquillo fino a quando non era lessato a puntino. L’umanità come specie non stava dimostrando un’intelligenza molto maggiore di quella rana.

    Il convoglio arrivò alla fermata dove Henry Evans doveva scendere.

    Il sociologo smontò e si diresse verso la banchina dov’erano gli altri passeggeri discesi.

    Nessuno disse niente, non era buona educazione attaccare discorso con gli sconosciuti, ma il gruppo si diresse all’unisono verso l’uscita.

    In cima alla rampa di scale che conduceva fuori, Henry Evans fu colto da un’improvvisa esitazione. Il gruppo dei passeggeri usciti dalla metropolitana si stava dirigendo dalla parte opposta a quella dove doveva andare lui.

    Era pericoloso avventurarsi da soli nelle strade buie, la prudenza avrebbe consigliato di ridiscendere le scale, tornare sulla banchina illuminata della metropolitana ed attendere che dal prossimo convoglio in arrivo scendesse qualcuno che andava nella sua stessa direzione, ma Henry Evans non se la sentiva di aspettare.

    Era strano: durante la trasmissione televisiva aveva pensato con terrore al senso di vuoto, alla solitudine che avrebbe trovato ad attenderlo nell’appartamento di cui con la morte di Sally era diventato definitivamente l’unico occupante. Ora, curiosamente, quella sensazione di disagio c’era sempre ma ora c’era anche, ed era più forte, il desiderio di correre a cercare il conforto delle sue cose note di tutti i giorni, delle sue quattro pareti, della porta con la quale chiudeva fuori almeno per un po’ il mondo impazzito; era, lo sapeva, un animale ferito che cercava il rifugio della tana.

    Fece un rapido calcolo mentale: casa sua si trovava a due isolati di distanza, poche centinaia di metri, un percorso irrisorio di giorno.

    S’incamminò. Era strano come col buio le distanze sembrassero dilatarsi, i passi risuonassero sul marciapiede, si percepisse il cuore battere a un ritmo frenetico nella cassa toracica.

    Il percorso così breve di giorno pareva allungarsi come un elastico tirato, ma ormai ce l’aveva quasi fatta, ancora poche decine di metri. Allungò la mano nella tasca alla ricerca delle chiavi.

    Avvenne all’improvviso: una fitta, un dolore intenso e brevissimo, accompagnato da una specie di lampo abbacinante che stranamente s’irradiava dalla nuca.

    Poi più nulla. Per sempre.

    Il ragazzo uscito dalle ombre a lato della strada poggiò per terra la spranga metallica lorda di sangue e di materia cerebrale, poi si chinò e girò sul dorso il corpo di Henry Evans. Peccato, quell’uomo era troppo vecchio per il mercato degli organi. Ad ogni modo, prima di andarsene si prese il portafogli, l’orologio, le scarpe, la giacca e i pantaloni.







     
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