Prova d'Orchestra

~ Federico Fellini (1979)

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    «La fiction può andare nel senso di una verità più acuta della realtà quotidiana e apparente. Non è necessario che le cose che si mostrano siano autentiche. In generale è meglio che non lo siano. Ciò che deve essere autentica è l’emozione che si prova nel vedere e nell’esprimere»
    Federico Fellini


    La vicenda si svolge in un antico oratorio, dal XVIII secolo adibito ad auditorium. Un uomo (il copista) illustra alla macchina da presa la storia e le caratteristiche dell’edificio. Si scopre poi che si sta rivolgendo a una telecamera dietro alla quale si nasconde un giornalista (con la voce di Fellini) intento a realizzare un servizio sull’orchestra che sta per prendere posto. I professori d’orchestra cominciano ad accomodarsi e la telecamera-m.d.p riprende tutto: gli orchestrali che parlano di se stessi e dei loro strumenti, le ritrosie di fronte all’intervista, le facezie scurrili e villane che fanno da ‘controcanto’ a chiunque parli, i comportamenti scomposti, l’assunzione di ansiolitici e superalcolici, il caos che non ha mai posa.

    È presente anche un sindacalista, incaricato di tutelare gli interessi dei lavoratori/musicisti che non mancano di contestare qualsivoglia deviazione dalle clausole contrattuali.

    La prova d’orchestra – alla cui direzione c’è un irascibile maestro di origine teutonica – si rivelano molto deludenti: un guazzabuglio di suoni e di rumori poco dissimili da quelli del traffico che avevamo sentito durante lo scorrere dei titoli di testa. I brani, apparentemente eseguiti correttamente, mancano in realtà di armonia, organicità e, con dizione di sintesi, di ‘concertazione’.

    Il direttore si infuria molto ma gli orchestrali si prendono gioco di lui.

    Nel frattempo si avvertono inquietanti scosse che fanno tremare le pareti, fino a che non si verifica un blackout. L’ambiente viene messo totalmente a soqquadro dai componenti dell’orchestra che, presi da goliardia, violenza e veemenza contestatoria, finiscono per imbrattare i muri di scritte dal sapore marcatamente sessantottino fino a trasformare l’oratorio in un grottesco caravanserraglio.

    A questo punto una grande sfera d’acciaio sfonda una delle pareti dell’auditorium; l’atmosfera si fa, di lì a poco, lugubre e silenziosa. Lo scossone sembra aver placato l’attivismo dei personaggi che, in seguito alla parziale demolizione dell’edificio, riescono finalmente a trovare l’equilibrio sonoro che sembrava non appartenere loro e ad eseguire un brano con eleganza e coesione. Ma il direttore, manifestando un’ingiustificata iracondia, disprezzerà con pesanti critiche anche quest’ultima performance, che avrebbe invece meritato plausi.

    Prova d’orchestra è sempre stato considerato uno dei film minori di Federico Fellini. Certo se si pensa a capolavori come Otto e mezzo, La dolce vita, Amarcord o La strada non si può fare a meno di pensare che il paragone non può nemmeno darsi come possibile. È però vero che spesso la sovrabbondanza di studi sui Grandi Film lascia uno spazio veramente troppo angusto al lavoro esegetico su altre opere pur ricchissime di soluzioni originali e stimolanti. La sorte appena descritta è, in buona misura, quella toccata al film in questione, eccessivamente adombrato da una filmografia traboccante di capolavori.

    Nell’intento di operare un’autentica rivalutazione di Prova d’orchestra uno dei punti da cui è consigliabile partire è senz’altro l’eccezionale fantasia visivo-sonora che permea l’universo immaginativo dell’opera. Immagini e suoni, infatti, sono sapientemente intersecati secondo logiche del tutto innovative. I brani di Nino Rota, tra i più grandi compositori di musica da film della storia del cinema, non accompagnano semplicemente le immagini né tanto meno servono solo ad aggiungere significato alla narrazione; sono piuttosto il centro della potenzialità estetica dell’opera nel senso che probabilmente il film sprofonderebbe nel vuoto semantico senza gli straordinari temi musicali che lo attraversano. Musica e rumore perdono progressivamente la linea di separazione che tradizionalmente li distanzia per acquisire un’inusitata autenticità che arriva a porre sul tappeto interrogativi sul senso dell’arte e del gusto che inevitabilmente la condiziona. Sgradevolezza e grazia trovano così una dimensione comune e diventano il simbolo della contraddittorietà universale, vera cifra stilistica di Prova d’orchestra.

    Testimonianze della compresenza/coincidenza degli opposti all’interno del film si rintracciano su più fronti, sia tematici che formali.
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    Innanzitutto l’uso del grottesco, che per sua natura prevede il gioco dei contrari – cfr. La grande abbuffata (La Grand bouffe, 1973) -, produce continue contraddizioni tra serio e faceto fino a far perdere i connotati di verità di cui alcune affermazioni dei personaggi non sarebbero prive. Nulla di ciò che ci viene mostrato è certo; innanzitutto perché l’autore, da autentico artista qual è, non propone un messaggio preconfezionato che poi tenta di esprimere nel migliore dei modi ma istituisce degli interrogativi estetici a cui riesce a rispondere solo parzialmente ma che mettono in moto un ricco percorso interpretativo che è destinato a non concludersi mai. In fondo lo stesso microcosmo sociale che Fellini mette in scena è oscuro e contraddittorio, come lo è la società alla quale non può non riferirsi, ma che è lungi dall’essere descritta in maniera compiuta ed esaustiva.


    Eppure il film all’apparenza ha la forma dell’inchiesta, del cinema che si avvicina al giornalismo e, di conseguenza, alla verità fattuale. Come già in altre opere simili, ad esempio I clowns (id., 1970), viene a sgretolarsi la divisione tra cinema e televisione e tra arte e giornalismo: i diversi ambiti si sormontano trascolorando vicendevolmente. L’effetto che ne deriva è la continua infrazione delle regole comunicative che pertengono ad ogni medium, tanto che si può parlare della presenza in Prova d’orchestra di versanti metacinematografici e metatelevisivi.

    Tali versanti si riflettono poi nell’interrogazione sulla natura del guardare e dell’essere guradati, sulla dialettica tra conoscenza sensibile autoptica e filtro deformante tipicamente detentori della doppia valenza di mistificazione e creatività. La macchina da presa indaga i personaggi fingendosi telecamera ma essi si comportano quasi come artisti circensi, creando scene da slapstick con la conseguente invalidazione dell’idea di reportage su cui si basa la finzione filmica.

    Ecco perché la contraddittorietà è la vera chiave interpretativa del film: ogni singolo assunto viene rovesciato in una realtà altra e nulla si rivela mai per come è.

    È intuibile inoltre come il concetto di contraddizione istituisca un conflitto tra le idee di caso/caos e la nozione di stabilità/organizzazione strutturata. L’agone tra questi due poli estetico-filosofici si ripropone costantemente lungo tutto il procedere della narrazione. Si pensi all’inconciliabilità del comportamento autoritario del direttore d’orchestra con la buona riuscita delle prove, alla dannosità dell’indisciplina degli orchestrali, all’impossibilità di estendere in toto le tutele sindacali agli artisti, alla necessaria ma problematica compresenza di obblighi comportamentali ed estro esecutivo insita nella musica sinfonica.

    Il discorso di Fellini è perciò, in ultima analisi, una riflessione sulle mille valenze delle regole, sull’incomprensibile e incompresa presenza del caso (la sfera d’acciaio da demolizione) nella quotidianità, sull’impossibile sovrapposizione tra lavoro e arte, sull’assurda pretesa di guardare ed essere guardati seguendo regole fisse e codificate.

    Tutto questo grottesco universo, perché «Tutto è prova d’orchestra» - Fellini dixit -, è visto attraverso una luce fioca e malferma, che non toglie dalle tenebre nient’altro che i contorni delle cose ma è abbastanza forte da svelare qualche verità sul senso dell’arte nella vita e sulla dialettica continua tra regole e libertà.

    Risultati come quelli appena riferiti non possono non corroborare il convincimento secondo il quale sovente Prova d’orchestra sia stato oggetto di sottovalutazioni dovute alternativamente a superficialità interpretativa, conformismo critico o eccessivo focus sui grandi capolavori. Lo sforzo che si dovrebbe compiere è quello di guardare quest’opera con occhi sgombri da accidiosi ed esiziali appiattimenti, di modo che l’approccio al film si compia con rinnovata freschezza e sereno tatto interpretativo.

    Marco Santello

    Edited by Kiby89 - 3/2/2011, 13:52
     
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