Mediterraneo (Montale)

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. aspirantelatinista
     
    .

    User deleted


    Mediterraneo è una sezione degli Ossi di seppia di Montale (so che c'è già una sezione su MOntale, ma preferire parlare a parte di questa particolare sezione). Mediterraneo è quasi come poemetto unitario, dunque, le sue poesie vanno lette tutte assieme.
    La sezione è formata da nove poesie, la disposizione del macrotesto è particolare: le prime quattro poesie cantano dell'adesione del poeta con il mare (simbolo di fecondità), la quinta segna il punto di svolta, il passaggio dal mondo mitico del mare a quello arido della terra, le ultime quattro cantano, invece, dell'adesione alla terra, non mancano, però spunti nostalgici verso quello che era il mondo del mare. Questo mare cosa potrebbe, inoltre, significare?
    Il mare potrebbe rappresentare il mondo dell'infanzia, dominato dal ricordo, il poeta quando si trova in adesione col mare manca di un'identità, poiché è una parte del tutto (Tu m'hai detto primo / che il piccino fermento / del mio cuore non era che un momento / del tuo...). Nel momento del mare prevale un senso di indefinita musicalità (quasi mi viene in mente la teoria del piacere di Leopardi), i versi sono brevi. Invece la terra rappresenta il mondo dell'età adulta in cui l'uomo incomincia a farsi delle domande sul mondo , si crea un'identità ed opera delle scelte. Possiamo ben notare un netto dualismo tra le due entità, una è simbolo di fecondità, l'altra di aridità, il mare è un continuo ribollire di vita, la terra è una distesa di sassi. Quando il poeta era con lo "spirito del mare", con il padre, non tendeva a soffrire, quando l'abbandonato a favore della madre terra ha incominciato a dolore perché la condizione di colui che si pone interrogativi sul mondo è sempre dolorosa. Tale passaggio è tuttavia necessario nella vita di ogni uomo...

    I
    A vortice s’abbatte
    sul mio capo reclinato
    un suono d’agri lazzi.
    Scotta la terra percorsa
    da sghembe ombre di pinastri,
    e al mare là in fondo fa velo
    più che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompe
    dal suolo che si avvena.
    Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque
    che s’ingorgano
    accanto a lunghe secche mi raggiunge:
    o è un bombo talvolta ed un ripiovere
    di schiume sulle rocce.
    Come rialzo il viso, ecco cessare
    i ragli sul mio capo; e via scoccare
    verso le strepeanti acque,
    frecciate biancazzurre, due ghiandaie.


    II
    Antico (mare), sono ubriacato dalla voce
    ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono
    come verdi campane e si ributtano
    indietro e si disciolgono.
    La casa delle mie estati lontane,
    t'era accanto, lo sai,
    là nel paese dove il sole cuoce
    e annuvolano l'aria le zanzare.
    Come allora oggi in tua presenza impietro,
    mare, ma non piú degno
    mi credo del solenne ammonimento
    del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
    che il piccino fermento
    del mio cuore non era che un momento
    del tuo; che mi era in fondo
    la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
    e insieme fisso:
    e svuotarmi cosí d'ogni lordura
    come tu fai che sbatti sulle sponde
    tra sugheri alghe asterie
    le inutili macerie del tuo abisso.

    III
    Scendendo qualche volta Back
    gli aridi greppi
    ormai divisi dall'umoroso
    Autunno che li gonfiava,
    non m'era più in cuore la ruota
    delle stagioni e il gocciare
    del tempo inesorabile;
    ma bene il presentimento
    di te m'empiva l'anima,
    sorpreso nell'ansimare
    dell'aria, prima immota,
    sulle rocce che orlavano il cammino.
    Or, m'avvisavo, la pietra
    voleva strapparsi, protesa
    a un invisibile abbraccio;
    la dura materia sentiva
    il prossimo gorgo, e pulsava;
    e i ciuffi delle avide canne
    dicevano all'acque nascoste,
    scrollando, un assentimento.
    Tu vastità riscattavi
    anche il patire dei sassi:
    pel tuo tripudio era giusta
    l'immobilità dei finiti.
    Chinavo tra le petraie,
    giungevano buffi salmastri
    al cuore; era la tesa
    del mare,un giuoco di anella.
    Con questa gioia precipita
    dal chiuso vallotto alla spiaggia
    la spersa pavoncella.

    IV
    Ho sostato talvolta nelle grotte
    che t'assecondano, vaste
    o anguste, ombrose e amare.
    Guardati dal fondo gli sbocchi
    segnavano architetture
    possenti campite di cielo.
    Sorgevano dal tuo petto
    rombante aerei templi,
    guglie scoccanti luci:
    una città di vetro dentro l'azzurro netto
    via via si discopriva da ogni caduco velo
    e il suo rombo non era che un susurro.
    Nasceva dal fiotto la patria sognata.
    Dal subbuglio emergeva l'evidenza.
    L'esiliato rientrava nel paese incorrotto.
    Così, padre, dal tuo disfrenamento
    si afferma, chi ti guardi, una legge severa.
    Ed è vano sfuggirla: mi condanna
    s'io lo tento anche un ciottolo
    róso sul mio cammino,
    impietrato soffrire senza nome,
    o l'informe rottame
    che gittò fuor del corso la fiumara
    del vivere in un fitto di ramure e di strame.
    Nel destino che si prepara
    c'è forse per me sosta,
    niun'altra minaccia.
    Questo ripete il flutto in sua furia incomposta,
    e questo ridice il filo della bonaccia.

    V
    Giunge a volte, repente,
    un'ora che il tuo cuore disumano
    ci spaura e dal nostro si divide.
    Dalla mia la tua musica sconcorda,
    allora, ed è nemico ogni tuo moto.
    In me ripiego, vuoto
    di forze, la tua voce pare sorda.
    M'affisso nel pietrisco
    che verso te digrada
    fino alla ripa acclive che ti sovrasta,
    franosa, gialla, solcata
    da strosce d'acqua piovana.
    Mia vita è questo secco pendio,
    mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
    di rigagnoli, lento franamento.
    È dessa, ancora, questa pianta
    che nasce dalla devastazione
    e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
    fra erratiche forze di venti.
    Questo pezzo di suolo non erbato
    s'è spaccato perché nascesse una margherita.
    In lei tìtubo al mare che mi offende,
    manca ancora il silenzio nella mia vita.
    Guardo la terra che scintilla,
    l'aria è tanto serena che s'oscura.
    E questa che in me cresce
    è forse la rancura
    che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.

    VI
    Noi non sappiamo quale sortiremo
    domani, oscuro o lieto;
    forse il nostro cammino
    a non tócche radure ci addurrà
    dove mormori eterna l'acqua di giovinezza;
    o sarà forse un discendere
    fino al vallo estremo,
    nel buio, perso il ricordo del mattino.
    Ancora terre straniere
    forse ci accoglieranno: smarriremo
    la memoria del sole, dalla mente
    ci cadrà il tintinnare delle rime.
    Oh la favola onde s'esprime
    la nostra vita, repente
    si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
    Pur di una cosa ci affidi,
    padre, e questa è: che un poco del tuo dono
    sia passato per sempre nelle sillabe
    che rechiamo con noi, api ronzanti.
    Lontani andremo e serberemo un'eco
    della tua voce, come si ricorda
    del sole l'erba grigia
    nelle corti scurite, tra le case.
    E un giorno queste parole senza rumore
    che teco educammo nutrite
    di stanchezze e di silenzi,
    parranno a un fraterno cuore
    sapide di sale greco.

    VII
    Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
    siccome i ciottoli che tu volvi,
    mangiati dalla salsedine;
    scheggia fuori del tempo, testimone
    di una volontà fredda che non passa.
    Altro fui: uomo intento che riguarda
    in sé, in altrui, il bollore
    della vita fugace - uomo che tarda
    all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
    Volli cercare il male
    che tarla il mondo, la piccola stortura
    d'una leva che arresta
    l'ordegno universale; e tutti vidi
    gli eventi del minuto
    come pronti a disgiungersi in un crollo.
    Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
    l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
    m'occorreva il coltello che recide,
    la mente che decide e si determina.
    Altri libri occorrevano
    a me, non la tua pagina rombante.
    Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
    ancora i groppi interni col tuo canto.
    Il tuo delirio sale agli astri ormai.

    VIII
    Potessi almeno costringere
    in questo mio ritmo stento
    qualche poco del tuo vaneggiamento;
    dato mi fosse accordare
    alle tue voci il mio balbo parlare: -
    io che sognava rapirti
    le salmastre parole
    in cui natura ed arte si confondono,
    per gridar meglio la mia malinconia
    di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
    Ed invece non ho che le lettere fruste
    dei dizionari, e l'oscura
    voce che amore detta s'affioca,
    si fa lamentosa letteratura.
    Non ho che queste parole
    che come donne pubblicate
    s'offrono a chi le richiede;
    non ho che queste frasi stancate
    che potranno rubarmi anche domani
    gli studenti canaglie in versi veri.
    Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
    azzurra l'ombra nuova.
    M'abbandonano a prova i miei pensieri.
    Sensi non ho; né senso. Non ho limite.

    IX
    Dissipa tu se lo vuoi
    questa debole vita che si lagna,
    come la spugna il frego
    effimero di una lavagna.
    M'attendo di ritornare nel tuo circolo,
    s'adempia lo sbandato mio passare.
    La mia venuta era testimonianza
    di un ordine che in viaggio mi scordai,
    giurano fede queste mie parole
    a un evento impossibile, e lo ignorano.
    Ma sempre che traudii
    la tua dolce risacca su le prode
    sbigottimento mi prese
    quale d'uno scemato di memoria
    quando si risovviene del suo paese.
    Presa la mia lezione
    più che dalla tua gloria
    aperta, dall'ansare
    che quasi non dà suono
    di qualche tuo meriggio desolato,
    a te mi rendo in umiltà. Non sono
    che favilla d'un tirso. Bene lo so: bruciare,
    questo, non altro, è il mio significato.
     
    Top
    .
0 replies since 1/7/2009, 09:15   18626 views
  Share  
.