L'Alfier Nero - Arrigo Boito

Simbologia massonico-esoterica.

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    Mia analisi del racconto "L'Alfier Nero" di Arrigo Boito alla ricerca della simbologia nascosta di natura esoterico-massonica che pervade la narrazione.
    Questa è una parte della mia tesi di Laurea Triennale in Lettere. Titolo:"Son luce ed ombra. La poetica del Dualismo in Arrigo Boito"!

    IV.
    Il dualismo simbolico: L’Alfier nero


    1. Creazione di due principî distinti: l’antefatto

    La novella narra lo svolgersi di una partita a scacchi tra un Nero (Tom) e un Bianco (Giorgio Anderssen). I due giocatori vengono immediatamente caratterizzati come simboli dei due principî fondamentali del dualismo boitiano: il bene e il male si affrontano sulla scacchiera, emblema della coincidentia oppositorum che li racchiude entrambi. Fin dalla prima parte del racconto viene messo in luce l’aspetto antagonistico dei due colori che eleva ad immagine simbolica i contendenti, non più uomini ma personificazioni degli opposti. Ciò conferisce alla narrazione un’atmosfera visionaria in cui realtà e allucinazione sembrano fondersi in modo che l’intera vicenda si stagli su uno sfondo di tipo quasi figurale. L’Alfier nero è caratterizzato infatti da un continuo susseguirsi di simboli dove spesso un semplice gesto di un protagonista, nel contesto del racconto, può assumere una forte valenza metaforica.
    Soltanto dopo aver descritto la situazione iniziale dei due giocatori davanti alla scacchiera, l’autore presenta l’antefatto: per sapere chi sono (i due uomini) bisogna saltare indietro sei ore. Viene così riportato un dialogo diretto che si volge tra alcuni forestieri nella sala di un albergo svizzero: l’argomento dei loro discorsi è uno scambio di impressioni sul negro appena giunto. Le parole dei turisti permettono di definire il personaggio tramite una serie di termini fortemente simbolici: pare Satanasso in persona; io l’ho preso per un ourang-outang. La connotazione luciferina del Nero viene accentuata dalla presenza del numero trenta (fa parte di una trentina di piccoli negri portati in Europa da uno speculatore; è uno di questi trenta grooms) e dell’acqua, legata alla sua origine - viene infatti da Morant Bay in Giamaica - e alla sua malattia - è ancora giovane ma una crudele etisia lo uccide lentamente, viene qui tutti gli anni per far la cura delle acque -.
    Tramite le opinioni dei forestieri, la voce narrante extradiegetica conferisce alla figura di Tom caratteristiche apparentemente diverse confermando un procedimento tipico del dualismo boitiano. Il passo seguente ne è la conferma:

    «Ed io lo conosco, signori, e posso assicurarvi che quel negro è il miglior galantuomo di questa terra […] Quel negro nativo del Morant-Bay venne portato in Europa fanciullo ancora da uno speculatore […] la fortuna volle ch’egli capitasse in mano di un vecchio Lord senza famiglia, il quale dopo averlo tenuto cinque anni dietro la sua carrozza, accortosi che il ragazzo era onesto ed intelligente, lo fece suo domestico, poi suo segretario, poi suo amico e morendo lo nominò erede di tutte le sue sostanze. Oggi questo negro […] è uno dei più ricchi possidenti del cantone di Ginevra, ha delle mirabili coltivazioni di tabacco e, per un certo suo segreto nella concia della foglia, fabbrica i migliori zigari del paese; anzi guardate, questi vevay che fumiamo ora vengono dai suoi magazzeni, li riconosco pel segno triangolare che v’è impresso verso la metà del loro cono. I Ginevrini chiamano questo bravo negro Tom o l’Oncle Tom perché è caritatevole, magnanimo; i suoi contadini lo venerano, lo benedicono. […] gli rimane a Morant-Bay un unico fratello , nessun altro congiunto; è ancora giovane ma una crudele etisia lo uccide lentamente, viene qui tutti gli anni per far la cura delle acque.»

    Ad una prima lettura, queste parole disegnano un ritratto di Tom diametralmente opposto a quello di Satanasso e ourang-outang. Oltre alla già analizzata simbologia dell’acqua, vi sono però altri elementi profondi che connotano il Nero di un aspetto diabolico o almeno ambiguo: esistono raffigurazioni in cui il diavolo è rappresentato come una scimmia che fuma tabacco. Non a caso, le coltivazioni di Tom fabbricano i migliori zigari del paese. Tali zigari posseggono due elementi degni d’attenzione: vengono definiti i migliori per un certo suo [di Tom] segreto della concia della foglia e portano impresso verso la metà del loro cono un segno triangolare. Nell’ottica della funzionalità esclusivamente narrativa tali informazioni risulterebbero superflue mentre divengono fondamentali ad un livello simbolico. I misteri (il segreto della concia della foglia e il triangolo) non vengono svelati e riconducono alla magia e alla stregoneria: ciò non ha una vera funzione diegetica, ma contribuisce ad accrescere notevolmente la simbiosi tra Tom e il principio del male.
    Una tale concentrazione di simboli all’interno di un passo così breve non può essere casuale. Ne è conferma la successiva associazione tra Anderssen e il colore bianco:

    Là v’era sdrajato su d’una poltrona, con quella elegante disinvoltura che distingue il vero gentleman dal gentleman di contraffazione, un signore che spiccava dall’ombra per le sue vesti candidissime.

    Anch’egli è presente nella sala dell’albergo. Fin dall’inizio l’autore si sofferma sulle sue vesti candidissime che fanno di Anderssen l’antitipo di Tom.
    L’americano racconta così la sua storia di combattente per la liberazione degli schiavi e il suo successivo cambiamento di posizione (cerco l’uomo negro ma finora non trovai che la bestia). É in questo momento che l’autore colloca la prima apparizione di Tom; attraverso il gioco dualistico i due uomini assumono sempre più il valore simbolico di due principî antitetici:

    In questo momento comparve sull’uscio un cameriere con una gran lampada accesa; tutta la sala fu rischiarata in un attimo. Allora si vide in un angolo, seduto, immobile, l’Oncle Tom.

    Il Bianco e il Nero divengono definitivamente gli opposti. Il primo viene presentato nella postura di un vero gentleman, visibile nonostante l’ombra per le sue bianche vesti. Il secondo è invece seduto in un angolo e la sua presenza viene notata solamente nel momento in cui la stanza riluce.
    Attraverso un sottile gioco schematico, Boito rappresenta la partita tra il Bianco e il Nero come una allegoria della lotta tra il bene e il male. Tom accetta di giocare su invito dell’americano: entrambi decidono di utilizzare gli scacchi del proprio colore ed è così che ha inizio la sfida.


    2. La lotta tra l’ordine e il caos: la partita

    È ora di fondamentale importanza soffermarsi sulla simbologia che permea il racconto. Si ascolti la dettagliata descrizione delle pedine:

    gli scacchi erano dei veri oggetti d’arte. I pezzi bianchi erano d’avorio finissimo, i neri d’ebano, il re e la regina bianchi portavano in testa una corona d’oro, il re nero e la regina nera una corona d’argento.

    L’immediata associazione è tra l’oro e il sole così come tra l’argento e la luna. Una volta di più l’autore accentua gli estremi della luce e dell’ombra, emblematici protagonisti della sfida sulla scacchiera. Quest’ultima trova invece collocazione nella simbologia delle logge massoniche i cui pavimenti erano spesso composti da piastrelle alternativamente nere e bianche: «significano fisicamente tenebre e luce, moralmente vizio e virtù, intellettualmente errore e verità e costituiscono la base su cui si eleva la simbolica massonica».
    Nel rovesciare le pedine sul tavolo, l’alfiere nero si rompe: è proprio l’americano a rimediare all’accaduto incollando le due parti dello scacco con della ceralacca rossa. Appare evidente il riferimento biblico alla Apocalisse secondo il quale l’alfiere prende le sembianze di una creatura diabolica: «una delle sue teste sembrava come colpita a morte, ma poi la sua ferita mortale fu guarita». L’alfiere nero ha così un’importanza decisamente superiore alle altre pedine presenti sulla scacchiera anche se non è ancora dato sapere quale ruolo svolgerà durante lo sviluppo della narrazione.
    L’autore offre ora un’importantissima informazione sul Bianco: fra le persone che nella sala dell’albergo si apprestano ad assistere alla partita v’era chi conosceva il nome di Giorgio Anderssen come quello d’uno fra i più celebri giuocatori a scacchi d’America. Ciò crea l’aspettativa di un esito quasi scontato della vicenda nella quale l’americano parrebbe sicuro vincente sul negro. In realtà, il racconto si svilupperà in modo del tutto diverso come, a livello simbolico, è intuibile fin dall’inizio della sfida:

    Prima che Anderssen avesse avuto tempo di muovere la prima pedina, il negro prese dalla sua destra la candela che era rimasta accesa sul tavolo da giuoco e la collocò a sinistra.

    Benché da un punto di vista esclusivamente narrativo possa sembrare inutile nello svolgimento della storia, questo gesto è determinante perché mette in luce il lato sinistro di Tom: la candela illumina così quella che è la parte dell’occulto e del demoniaco in opposizione alla destra, emblema del divino e della salvezza.
    Una volta che la partita ha inizio, vengono rilevate le differenze strategiche dei due giocatori e, anche in questo caso, è il simbolismo la chiave di lettura più adatta all’intera vicenda:

    La marcia dell’Americano era trionfale e simmetrica, rassomigliava alle prime evoluzioni di una grande armata che entra in una grande battaglia; l’ordine, quel primo elemento della forza, reggeva tutto il giuoco dei bianchi. […] l’individuo così quei pezzi d’avorio non giocava ad un gioco, meditava una scienza […] La posizione dei bianchi offendeva tutto e difendeva tutto, era formidabile in ciò che circoscriveva l’inimico ad un ristrettissimo campo d’azione e, per così dire, lo soffocava. […] i pezzi d’ebano de’ quali componevasi l’armata dei neri parevano, davanti allo spaventoso assalto de’ bianchi, colti anch’essi da un tragico sgomento. […] La mano di Tom fosca come la notte errava tremando sulla scacchiera. Questo era l’aspetto della partita veduto dal lato dell’Americano. Mutiamo campo. Veduto dal lato del negro l’aspetto della partita si rovesciava. Al sistema dell’ordine sviluppato dall’apertura dei bianchi, il negro contrapponeva il sistema del più completo disordine. […] mano mano che la parte mobile del bianco s’avanzava, il proiettile del negro si faceva più possente. I due eserciti erano completi uno a fronte dell’altro, non mancava né un solo pezzo, né una sola pedina […] L’Americano non iscorgeva in sul principio nella posizione del negro che una inetta confusione prodotta dal timor panico del povero Tom, ma appunto per la sua inettitudine gli impedisse un regolare decisivo assalto.

    La voce narrante registra le sensazioni degli sfidanti e mostra una situazione di stasi in cui nessuna delle due forze riesce a prevalere sull’altra. La scacchiera è diventata il luogo dello scontro tra due principî: l’ordine e il caos. Il primo è simbolo del divino, il secondo del diabolico: il disordine e l’inadeguatezza della strategia del Nero confonde le certezze del Bianco che, nonostante l’indiscutibile superiorità nella conoscenza del gioco, non riesce a portare a termine un regolare decisivo assalto. Ma lo squilibrio della posizione di Tom ha un centro definito, che consiste nell’alfiere: è come se intorno a questo perno la narrazione potesse spostarsi definitivamente su un piano visionario. La pedina è ora un guerriero ferito e la partita si trasforma in una battaglia dove il ritmo della narrazione diviene sempre più incalzante:

    Quello squilibrio aveva un perno, quella ribellione aveva un capo, quel vaneggiamento un concetto. L’alfiere che Tom aveva collocato fin dal principio alla terza casa della regina era quel perno, quel capo, quel concetto. Le torri, le pedine, i cavalli, la regina stessa attorniavano, obbedivano, difendevano quell’alfiere. Era appunto l’alfiere ch’era stato rotto ed aggiustato dall’Americano; un filo sanguigno di cera lacca gli rigava la fronte e colando giù per la guancia gli circondava il collo. Quel pezzo di legno nero era eroico a vedersi, pareva un guerriero ferito che s’ostinasse a combattere fino alla morte; la testa insanguinata gli crollava un po’ verso il petto con tragico abbattimento, pareva che guardasse anche lui, come il negro che lo giuocava, la fatale scacchiera; pareva che guatasse di sottocchi l’avversario e aspettasse stoicamente l’offesa o la meditasse misteriosamente.

    Nell’atmosfera allucinata del racconto, l’alfiere nero prende vita: da pezzo aggiustato con la cera lacca diviene eroico a vedersi, un guerriero ferito che s’ostinasse a combattere fino alla morte. L’americano ora si sente osservato e sembra perdere l’equilibrio e la fiducia che aveva all’inizio della partita: il caos sta ora minando le basi dell’ordine. Sotto tale aspetto è fondamentale la focalizzazione della voce narrante che, pur se implicitamente, non nasconde una sorta di simpatia per l’eroico alfiere: sul piano narrativo ormai compiutamente visionario, la pedina insanguinata diviene l’assoluta protagonista del racconto.
    Successivamente il tempo della narrazione comincia ad essere più lento e il lessico si fa tecnico; in questo caso l’epifania ricopre un ruolo preparatorio per quello che sarà il finale. L’attesa domina la parte centrale, creando una notevole suspense:

    Egli attendeva con trepidazione una mossa sola, l’arroccamento del re avversario, per dare sviluppo al suo recondito pensiero. Senza quella mossa tutto il suo piano andava fallito, ma era quasi impossibile che Anderssen ommettesse quella mossa.

    È quella mossa, tanto attesa quanto insperata, che viene invece effettuata da Anderssen:

    Giunto alla quindicesima mossa, s’accorse che il suo re non s’era ancora arroccato, alzò le mani, colla sinistra sollevò il re, colla destra la torre, e stava già per compiere il movimento quando scorse nell’occhio del negro un ilare lampo di speranza, non ne indovinò la ragione, stette ancora coi due scacchi per aria studiando la partita, titubò; l’occhio di Tom seguiva affannosamente, fra la gioja e il timore, i più piccoli segni delle due mani bianche come l’avorio che serravano; Anderssen turbato stava per rimettere al loro posto primo i due pezzi quando i negro esclamò vivamente: «Pezzo toccato, pezzo giocato.»

    A questo punto il Nero inizia ad osservare freneticamente trepidante il percorso tra l’alfiere nero e il re bianco: in questo atteggiamento stette maturando il suo colpo per ben quaranta minuti dopodiché attaccò. La narrazione torna ad essere incalzante e si susseguono una serie di mosse vincenti da entrambe le parti (il pieno della mischia era cessato, i morti ingombravano le due sponde nemiche, la scacchiera s’era fatta quasi vuota). La partita di Tom ruotava ora sull’alfiere ferito: soltanto questo poteva difenderlo dagli attacchi dei bianchi, ora in supremazia strategica.


    3. Il trionfo dell’alfiere: l’epilogo

    L’atmosfera della novella diviene ora drammatica e ancor più visionaria:

    L’alfiere nero lo aveva ipnotizzato. Tom era terribile a vedersi, egli si mordeva convulsamente le labbra, aveva gli occhi fuori dell’orbita, le goccie di sudore gli cadevano dalla fronte sulla scacchiera. […] Per Tom la partita poteva dirsi perduta; non erano le combinazioni del giuoco che lo facevano così commosso e sospeso, era l’allucinazione. Lo scacco nero, per Tom che lo guardava, non era più uno scacco, era un uomo, non era più nero era negro. La cera lacca rossa era sangue vivo e la testa ferita una vera testa ferita. […] La fronte di quella figura di legno diventava sempre più umana, sempre più eroica, toccava quasi all’ideale e, passando da trasformazione in trasumanazione, da uomo diventava idea come da scacco era diventata uomo.

    Passarono così altre quattro ore, mute come la tomba comunica la voce narrante. La tensione è ora al culmine e diviene insostenibile fino al momento in cui l’alfiere nero è costretto a soccombere per poi, nell’inaspettata svolta narrativa, resuscitare:

    Anderssen, abbagliato dalle evoluzioni fantastiche dell’alfier nero, continuava ancora ad inseguirlo, a rinserrarlo, a soffocarlo. A un tratto lo colse! […] e guardò in faccia con piglio trionfante lo sconfitto nemico. […] La faccia del negro brillava d’uno splendore di giubilo. anderssen nella foga della caccia al pezzo fatale aveva dimenticato la pedina nera che stava sulla penultima casa dei bianchi alla sua destra. […] abbassò con rapida violenza gli occhi sulla scacchiera. Tom aveva già fatta la mossa. La pedina era passata regina? No. La pedina era passata alfiere, e già l’alfiere segnato, l’alfiere nero, l’alfiere insanguinato era risorto ed aveva dato scacco al re bianco.

    La partita a scacchi, ormai conclusa, diviene immagine apocalittica dello scontro tra Bene e Male. Ancor più radicato nel Nero dallo spostamento della candela sul lato sinistro, è il principio oscuro a vincere la partita. L’epilogo mostra però un’ulteriore svolta narrativa:

    Tom contemplava estatico la sua vittoria.
    Giorgio Anderssen spiccò un salto, corse al bersaglio, afferrò la pistola, sparò. Nello stesso momento Tom cadde per terra. La palla l’aveva colpito alla testa, un filo di sangue gli scorreva sul volto nero e colando giù per la guancia gli tingeva di rosso la gola ed il collo: Anderssen rivide in quest’uomo disteso a terra l’alfiere che lo aveva vinto.
    Tom agonizzando pronunciò queste parole: «Gall-ruck è salvo… Dio protegge i negri…» e morì. […] Anderssen rientrò nelle sue terre col rimorso nel cuore non alleggerito dalla più tenue condanna. Dopo la catastrofe che raccontammo giuocò ancora a scacchi ma non vinse più. quando si accingeva a giocare, l’alfier nero si mutava in fantasma. […] In questi ultimi anni povero, abbandonato da tutti, deriso, pazzo, camminava per vie di New-York facendo sui marmi del lastricato tutti i movimenti degli scacchi, ora saltando come un cavallo, ora correndo dritto come una torre, ora girando di qua, di là, avanti e indietro come un re e fuggendo ad ogni negro che incontrava.
    Non so s’egli viva ancora.

    Lo scacco diviene doppio di Tom così come Tom diviene doppio di Gall-ruck: la vittoria e la morte del Nero determinano la salvezza del fratello. I tre sembrano costituire una trinità e sono tutti associati alla decapitazione, simbolo di un personaggio evangelico come Giovanni Battista.
    Gall-ruck è il centro simbolico del racconto: Tom e l’alfiere nero giocano e vincono la partita per la sua salvezza, attraverso la quale il principio del male riesce ad ottenere la vittoria. Anderssen diviene invece povero, abbandonato da tutti, deriso e pazzo: è ora la personificazione della sconfitta, il fallimento dell’ordine a vantaggio del caos. Nell’Alfier nero, la coincidentia oppositorum lascia spazio alla lotta dei contrarî: la storia diviene allegoria e descrive l’inevitabile fallimento dell’uomo nell’inseguire la propria duplicità. Come è il realismo ad annichilire il tono sentimentale nelle liriche, così il principio dell’ombra finisce per sopraffare quello della luce. La metafora è efficace a varî livelli: la vittoria del Male riconduce una volta di più al buio Iddio di Dualismo così come le pedine e la scacchiera rammentano l’ozioso gioco della stessa lirica.
    La poetica del dualismo boitiano è la poetica della duplicità dell’animo umano. Son luce ed ombra, scrive l’autore, ma è la seconda a prevalere sistematicamente. A riprova della fragilità della condizione terrena e della lontananza di Dio.

    NOTE FONDAMENTALI:
    I ritratti dei due uomini vennero considerati eccessivamente stereotipati. In realtà l’elemento razziale è soltanto un pretesto per mettere a confronto due simboli del tutto opposti in cui è fondamentale l’aspetto cromatico: il bianco e il nero, oltre ad essere emblema rispettivamente di luce e ombra, sono i colori che distinguono i pezzi e sono compresenti nella scacchiera.
    Pubblicata per la prima volta sul numero del marzo 1867 del “Politecnico”, con il titolo L’Alfier nero. Novella. I passi citati sono tratti dall’edizione contenuta in A. Boito, Opere letterarie, a cura di A.I. Villa, cit., pp. 167 - 179.
    Lessema utilizzato da Boito. Ovviamente è l’uomo che è in procinto di giocare la partita a scacchi contro il bianco.
    Satanasso / ourang-outang: nella tradizione gnostica, l’immagine del negro è a volte associata al diavolo così come alla scimmia.
    Il numero trenta ricorre altre volte nella produzione boitiana (Re Orso; Il pugno chiuso). Nella letteratura pseudoclementina, esso individua la setta eretica di Giovanni Battista composta da trenta discepoli: poiché precursore di Cristo egli veniva considerato come incarnazione del principio malvagio. Sotto tale aspetto, risulta fondamentale la presenza dell’acqua. Il Battista è colui che battezza Gesù nel fiume Giordano e sembra non casuale il fatto che Morant Bay, città natale del negro, sia collocata sulla foce di un fiume: il Morant. Infine, secondo il mandeismo, dottrina gnostica che riconosce come proprio capo Giovanni Battista, per salvarsi occorre essere battezzati periodicamente: allo stesso modo il negro effettua ogni anno la cura delle acque. È molto probabile che Boito abbia studiato in modo approfondito questi temi durante la preparazione del Mefistofele, opera ricca di riferimenti alla simbologia religiosa. È di fondamentale importanza ribadire la connotazione simbolica del racconto in per non fraintendere le intenzioni dell’autore: il pretesto storico e l’associazione del negro con il diavolo sono funzionali allo svolgersi della narrazione. L’analisi delle possibili chiavi interpretative del racconto è riassunta da A.I. Villa nella sezione Introduzioni e note delle Opere letterarie, cit.
    Dal romanzo di H.B. Stowe (1852). L’Oncle Tom è il prototipo della bontà.
    Poco dopo si legge: «Povero Oncle Tom! quel suo fratello a quest’ora potrebbe già essere stato decapitato dalla ghigliottina di Monklands. Le ultime notizie delle colonie narrano d’una tremenda sollevazione di schiavi furiosamente combattuta dal governatore britannico. Ecco intorno a ciò cosa narra l’ultimo numero del Times: «I soldati della regina inseguono un negro Gall-ruck che si è messo a capo della rivolta con una banda di 600 uomini, ecc., ecc.» Si scoprirà successivamente che Gall-ruck è il fratello di Tom. Ciò risulterà in seguito di estrema importanza.
    È opportuno ricordare la precedente associazione all’ourang-outang, ossia alla scimmia. Un esempio di tale raffigurazione lo si può trovare in Hans Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti, Milano 1991.
     
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